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11/09/2024
Sono le 13.52 e non so se sono io, se è la mia bolla, se è che l’estate sta finendo e un anno se ne va, fino a questo momento ho visto un solo post che ricordava, peraltro tangenzialmente, quella cosetta lì delle torri.
12/07/2024
C’è un luogo dove mi fermo, prima di entrare nella cittadina che fu il vero centro operativo del genocidio. Potočari, con la fabbrica che fungeva da quartier generale dei caschi blu e i suoi spazi enormi e umidi che diventarono troppo piccoli per contenere le migliaia e migliaia di persone terrorizzate in fuga dalle truppe di Mladic, la distesa di stele bianche a coprire le colline come uno scialle di marmo, il piccolo chiosco che con una certa dignitosa sobrietà vende le spille con il fiore fatto di undici petali bianchi intorno al centro verde come il paradiso islamico e come le bare delle vittime, la fossa comune secondaria di Budak 1 di cui mi sono salvato le coordinate geografiche – un rettangolo di terra sulla quale pare che l’erba faccia fatica a crescere mentre tutto intorno è un rigogliare esemplare di piante da frutto.
Mi resta l’immagine di una donna velata che prega piangendo le lacrime di un dolore inesauribile, inginocchiata di fronte a due tombe. Il compagno la aspetta a qualche metro di distanza, custodendone la solitudine come se non volesse rompere con la propria presenza il cerchio intimo che lega la donna alle due colonne di marmo sulle quali, insieme ai nomi dei due morti, è inciso il meraviglioso versetto del Corano che recita “E non dire di quelli che sono morti sulla via di Allah: ‘sono morti’. No, sono vivi ma tu non li senti”. Li fisso restando in disparte provando l’irrazionale istinto di andare da quella donna e abbracciarla come se questo potesse servire, o avere un senso; quando si alza, l’uomo le si avvicina e le si accosta accompagnandola lungo il breve sentiero sterrato che divide un campo di tombe da un altro in direzione del grande ingresso del cimitero: io, invece, mi porto lentamente di fronte alle due tombe, leggo i due nomi e l’identico cognome – mi immagino due fratelli, uno di diciannove e l’altro di ventitré anni nel giorno in cui vennero massacrati, e una sorella che è morta quel giorno restando poi incollata al destino implacabile e spietato di chi rimane, sentendosi in colpa per il solo fatto di essere viva.
Uscendo dal cimitero mi torna in mente il luminoso giorno di dicembre in cui mi trovai insieme a un collega ad aspettare l’autobus che collega il campo di Auschwitz a quello di Birkenau. Scambiammo le quattro parole senza peso che si dicono per non restare completamente in silenzio quando si è in compagnia, anche se quella sarebbe l’unica cosa sensata e giusta da fare: tacere, deglutire e tenere dentro a forza quel che si è visto sapendo che si sta per incontrare qualcosa di ancora peggiore. Ci avvicinammo a Michele, la guida che ci accompagnava nella visita dei campi, l’uomo che un secondo prima di muovere il passo verso il cancello del campo, quello dell’Arbeit Macht Frei, ci aveva detto serio e quasi tagliente: “questa non è una gita, non è un’escursione; state entrando in un cimitero, comportatevi di conseguenza”. Gli chiedemmo da quanto tempo faceva quel mestiere, portare per tre ore abbondanti piccoli gruppi di persone a guardare con i propri occhi i luoghi del più grande sterminio organizzato che la storia ricordi. “Otto anni”, rispose, e a noi sembrò un’enormità, otto anni di crematori e camere di tortura e torrette e baracche e mucchi giganteschi di scarpe e capelli e valigie e uniformi a strisce e latrine: com’è questo lavoro, gli domandammo, senza riuscire né ad articolare meglio né tanto meno a immaginare la risposta; lui fece un sorriso mesto e consapevole: “non è il dentro, sono le domande che ti fai quando sei fuori”, disse con una voce tranquilla, e dentro si sentiva qualcosa che non era stanchezza o rassegnazione, era piuttosto la convinzione ostinata, costruita giorno dopo giorno e crematorio dopo crematorio, che devi provare a dare un senso a quello che fai per renderlo utile e buono e giusto per te e per gli altri. Poi arrivò l’autobus, Michele ci fece cenno di salire e noi ci muovemmo. Faceva freddo ma era una bella giornata di sole, come oggi a Potočari.
12/06/2024
Qualche giorno fa ho letto “Ci vediamo in agosto”, il racconto lungo (romanzo breve? vai a sapere) di Gabriel Garcia Marquez pubblicato postumo dieci anni dopo la sua morte. Io con Gabo ci sono cresciuto, l’ho letto e riletto e riletto ancora in diversi momenti della vita, e anche quando ero immerso nelle passioni del momento, pure quelle che sarebbero diventate amori duraturi – Philip Roth, Svetlana Aleksievič, Elizabeth Strout, Robert Perišić – lui era lì con la meraviglia della sua lingua, con i suoi personaggi ormai diventati parenti e amici e misteri mai abbastanza svelati.
Mentre lo leggevo – lui, e il libro – non riuscivo a non pensare a mio padre. Era come avere di fronte un uomo anziano, molto anziano ma ancora in buona forma e ritrovarne i bagliori dell’età adulta, di quando era forte, la voce sicura, gli occhi brillanti; era ancora lui, solo un po’ meno, una sua versione affievolita alla quale era impossibile non voler bene perché c’era ancora tutto quello che ti aveva preso il cuore tanto tempo prima. Gabo, e anche il mi’ babbo.
04/04/2024
Sono le sette di sera, faccio i calcoli del fuso orario, penso che forse a quest’ora nel sudovest dell’Ucraina hanno finito di cenare – sempre che abbiano cenato nel senso che noi diamo al termine: “se si può, si mangia quando si ha fame: nel frigorifero si trova sempre qualcosa, a casa nostra”. Comunque, decido di scrivere a U.: le chiedo come sta, come stanno i ragazzi. Lei risponde: la scuola di V., le cure mediche per M., tutto come al solito. Mi chiede notizie delle mie “ragazze” e anche su questo fronte non c’è niente di nuovo: per fortuna, forse.
Quella dove vivono è sempre stata una zona tranquilla, per quanto lo si possa essere in un paese in guerra dove morte e distruzione non arrivano dai soldati nemici che accerchiano la tua città ma da missili lanciati ottocento chilometri più a sud, o a est. Le chiedo se ci sono problemi, che nella sintesi dei nostri scambi significa “più problemi del solito”, più paura, più rischio di richiamo dei mariti sotto le armi, più allarmi aerei. “La situazione è tesa perché non sappiamo cosa succedera domani, ma non ci arrendiamo. Tutto costa di più, ogni giorno. Lo affrontiamo”, mi risponde. Passa un minuto: “U. sta scrivendo”. Aspetto, fino a quando non appare il nuovo messaggio: “Tutto andrà bene. Vero?”. Ed è quell’ultima, piccola parola che mi stronca. Perché a milleottocento chilometri di distanza dal mio divano, una donna di quasi quarant’anni, forte, dagli occhi profondi e seri, che cresce due figli inventandosi un lavoro per sopperire a quello perso dal marito, chiede a me di rassicurarla, di dirle che sì, andrà tutto bene, che finirà tutto presto e lei, i suoi figli, le sue sorelle, torneranno alla loro vita di un tempo. Lo chiede come fanno i bambini, “vero mamma, vero papà?”. E come fa un genitore con un bambino piccolo, rispondo mentendo, sapendo di mentire perché l’ultima cosa che si deve togliere a un essere umano è la speranza: sì U., non ci sono dubbi, andrà tutto bene, e quando tutto sarà finito verremo a trovarvi, a mangiare dolci e bere vodka, a guardare i ragazzi e dire “come sono cresciuti”. “Vero?”
28/03/2024
Ieri ero a pranzo dai miei. Una cosa semplice, mi aspettava un pomeriggio di lavoro e loro sono anziani (piuttosto anziani) e non mangiano né tanto né elaborato. E insomma, mentre mangiavo quel piatto di linguine sono stato trafitto dalla consapevolezza che arriverà un momento in cui quel sapore non potrò più gustarlo. Mangerò – come ho mangiato mille e mille volte in passato – cose più buone, anche molto più buone: ma mai più quelle, quei quattro o cinque piatti che hanno il timbro di mia mamma, con i quali sono nato, cresciuto e invecchiato, che potrei riconoscere a occhi chiusi in qualsiasi posto e in ogni momento. Mi è venuta una malinconia indicibile, e infatti non l’ho detta. Ho finito il piatto, e ho chiesto se fossero avanzate un paio di forchettate.
15/03/2024
Qualche giorno fa è morto Giuseppe Granieri. Chi ha tenuto un blog e/o si è interessato di questioni digitali nei primi anni Duemila non può non conoscere questo nome e ricordarlo: vuoi con affetto, vuoi con riconoscenza, vuoi con ammirazione, che sono in generale i sentimenti espressi pubblicamente da chi ha avuto con GG un rapporto più stretto.
Da quei ricordi, come talvolta capita per una concatenazione di motivi ed eventi non sempre prevedibile, è venuta fuori una riflessione a più voci che ha preso la piega del “come eravamo e come siamo diventati”. Qui, sul blog di Sergio Maistrello, se ne trova un ottimo esempio, diventato rapidamente il centro di una conversazione di quelle che si facevano vent’anni fa, utilizzando strumenti (i blog! i commenti dei blog!) dati per morti e che invece erano, chissà, solo dormienti.
Di mio posso solo rimettere qui una cosa che in pubblico o privato ho scritto e detto tante volte durante quegli anni: al netto di coloro che sulla scorta del primo successo di quegli strumenti nuovi e strani si fecero venire idee di business personale (molte delle quali, mi pare, fallite in modo piuttosto rapido e indolore), quella che ai tempi veniva chiamata blogosfera si divideva in due grandi gruppi umani. C’era chi riponeva una sorta di fiducia nell’umanità (prima ancora che negli strumenti che si andavano costruendo e dei quali si affinava l’uso) e su questa fiducia sentiva di poter fare una scommessa: quella di magnifiche sorti e progressive raggiungibili con strumenti che potevano forgiare una nuova umanità. Molti di questi, in modo forse ingenuo ma indubitabilmente onesto, giocarono molto di sé, della propria visione del futuro possibile in quella scommessa, e oggi penso che si possa serenamente – per quanto non felicemente – dire che quella giocata l’hanno persa. Altri, dei quali so di far parte ma non ho alcun motivo di vantarmene, quella fiducia la ritenevano già allora e ben prima dell’affermazione dell’Internet nella quale oggi bene o male ci tocca stare, avventata e largamente mal riposta. Tutti, i primi e gli altri (che messi insieme erano – vale sempre la pena ricordarlo – davvero una manciata di persone; le folle sarebbero arrivate dopo, con i percorsi che un libro ancora oggi fondamentale come “I barbari” di Alessandro Baricco descrive nitidamente), da quegli anni si sono portati dietro e dentro esperienze umane di grande spessore, amicizie durature, opinioni e visioni del mondo; nessuno, in particolare coloro che veramente a questo miravano, è riuscito a spostare il mondo nella direzione che si augurava mentre scriveva i suoi post e compulsava i feed RSS: quello lo ha fatto Zuckerberg, con il successo che sappiamo e gli effetti collaterali che conosciamo fin troppo bene. Guardando oggi a quel periodo, posso solo dire che c’è chi ha perso perché ha puntato le sue fiches impegnandosi in prima persona, e chi non ha perso perché non ha creduto che valesse la pena farlo: che, forse, è un’altra sconfitta.
08/02/2024
[Cose scritte altrove, un anno fa. Non è cambiato nulla, nel frattempo]
A. ha tredici anni, i lineamenti fini, i capelli biondi e l’espressione vagamente malinconica che hanno i ragazzini costretti a fare i conti con una malattia, una cosa che a volte li costringe a stare seduti quando gli altri corrono o dire no grazie, non posso quando qualcuno gli offre un gelato. Ha passato l’ultimo mese a casa dei nonni, nella periferia milanese, insieme ai genitori e al fratello minore. Un posto dove, sono certo, non avrebbe voluto tornare: non così come ha dovuto farlo, per una visita di controllo e in attesa di salire su un aereo per andare ancora più lontano da casa sua, ancora più a ovest, in un posto dove non c’è la guerra e il padre ha trovato un lavoro. Quando mi ha visto si è alzato dal letto sul quale stava sdraiato tenendo in mano il telefono, l’unico – o almeno il più importante – contatto con il mondo in un paese dove, a parte i membri della sua famiglia, conosce solo una manciata di ragazzini con i quali ha imparato a comunicare a gesti: e quei ragazzini oggi vanno a scuola e quando finiscono hanno i loro impegni – il calcio, il nuoto, il catechismo, le ripetizioni: tutto tempo che non possono dedicare a A. e a suo fratello. Mi è venuto incontro e, come ha sempre fatto, ogni volta che sono andato a trovarlo durante i tre mesi del suo primo soggiorno italiano, mi ha abbracciato nel modo goffo che affligge i ragazzi della sua età: e io ho restituito l’abbraccio, ancora più goffo di lui, senza saper affrontare la differenza di altezza e l’indefinibile imbarazzo di queste situazioni. Poi ho parlato con sua nonna, ho bevuto il caffè che mi ha preparato sua mamma e il bicchiere di vodka che suo nonno mi ha come sempre imposto e ho spiegato a gesti a suo padre quando avrebbe dovuto tirare fuori dalla grande busta di documenti che accompagna la famiglia in questa emigrazione il foglio che autorizza il trasporto di certi medicinali. A. guardava con i suoi occhi chiari i biglietti aerei appoggiati sul tavolo; ho preso il telefono, ho aperto l’app di traduzione e ho scritto una domanda stupida, l’unica che mi è venuta in mente di fargli: “Sei contento di partire?”. Lui ha guardato lo schermo, le lettere del suo strano alfabeto, poi ha alzato il viso e ha fatto no con la testa. Lo ha fatto con il sorriso più triste che io abbia mai visto, quello di chi è abbastanza grande non per sapere, ma almeno per sentire cosa sta succedendo, cosa è già successo alla sua vita: sa che quella che ha vissuto fino a un anno fa, e che per qualche mese ancora ha sperato di poter tornare a vivere, è finita; quello di chi si vede strappato agli amici, alla scuola, alla canna da pesca e al pallone e al prato che circonda la sua casa nella provincia ucraina ed è certo che non tornerà più indietro. Cancello la prima domanda. Scrivo “Guarda che state andando in un bel posto, credimi” e se potessimo parlarci proverei a dirgli che non lo sto prendendo in giro, non lo sto illudendo, io in quella città ci sono stato tante volte ed è bella davvero, c’è lo stadio incastrato in mezzo alle case e c’è il mare e si mangia bene: e lui sorride ancora e non ha bisogno di parlare per farmi capire che non è che non mi crede, è che non gli interessa, non può essere un bel posto perché non è casa sua, non è dove lui vuole stare e diventare grande. Qualche minuto dopo saluto tutta la famiglia, uno alla volta. Ai due fratelli faccio vedere l’ultima scritta sullo schermo, quando arrivate fatemi sapere come state, scrivetemi, e loro fanno sì con la testa e poi in fretta riportano gli occhi sui loro telefoni, gli unici posti dove hanno il mondo, quelli dove si rifugiano dopo essere stati costretti a lasciare la loro casa e la loro vita dalla guerra, che li ha sfiorati con le armi e schiantati con la paura.
02/02/2024
Impieghiamo una vita per capirlo sulla nostra pelle, quanto i genitori influenzano anche inconsapevolmente i figli – e quella vita spesso non basta a farcelo accettare; sarà per quello che non ce ne rendiamo conto, quando ci troviamo ad essere dall’altra parte.
24/01/2024
Oggi ho pagato il rinnovo dei servizi che tengono in piedi questa baracca di bit. Non so se considerarlo come un gesto di insensata fiducia nel futuro o di suprema pigrizia.
29/12/2023
Che esiste una cosa come la cruda, incontaminata, immotivata gentilezza.
Chissà chi aveva in mente David Foster Wallace quando scrisse questa frase (che sta dentro una mezza pagina di Infinite Jest che andò subito dritta tra le sue cose più belle e famose). Quando capita – incontrare quella forma di gentilezza e chi la incarna regalandola inconsapevolmente agli altri – è come vedere un diamante, o un arcobaleno: meraviglioso, e raro.
Ma c’è un’altra gentilezza, meno straordinaria, forse in qualche modo meno nobile, e non per questo meno preziosa nella vita di tutti, di ogni singolo e della società nel suo insieme. L’ho vista diverse volte, e certamente più spesso di quanto mi sarei aspettato, in questi giorni di ospedale e infermieri e operatori sanitari e medici e pazienti e familiari e amici.* E’ quella che si riceve perché ce la si merita, perché a propria volta la si è seminata anche per semplice buona educazione, sulla quale si è innestato poi un grazie in più, o detto col sorriso che le circostanze consentono, o un gesto cortese non richiesto, o un per favore sarebbe così gentile da. E’ una gentilezza che spesso non sgorga spontanea, alla quale si arriva dopo una frazione di secondo durante la quale si sceglie quella strada e non l’altra fatta di secchezza, pretesa anche legittima, espressione seria. E’ una gentilezza che costa più fatica e grazie alla quale si tiene insieme un pezzo di mondo: e che, se non si è ciechi e sordi, ritorna moltiplicata nelle forme più svariate che rendono la vita qualcosa non solo di più sopportabile, ma persino di bello.
* Va tutto bene, stiamo bene tutti e ora siamo tutti a casa.
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