Secondo alcuni – troppi, secondo me – lo Stato potrebbe concedere la grazia ad un detenuto solo in presenza di due condizioni: il perdono da parte delle vittime o dei loro congiunti più stretti e la richiesta di grazia da parte del detenuto stesso.
Il sottoscritto, come la grandissima parte dei suoi concittadini, è di formazione cattolica. Perdono è un termine che, senza andare a spulciare nel vocabolario, ha un significato importante e profondo.
Eppure.
Eppure le vittime ed i loro congiunti non dovrebbero avere alcun ruolo in queste vicende; perchè assegnarglielo significa adottare, potenzialmente, un surrogato della legge del taglione: mi hai fatto del male? E adesso io lo faccio a te.
Non solo, ma significa introdurre un elemento di discriminazione tra detenuti che potrebbero ricevere la grazia. Se il detenuto A ha ucciso, per dire, il fratello di una suora, ed il detenuto B ha ucciso il padre di un ateo convinto, è possibile (non certo, ma possibile, forse probabile) che il primo abbia più possibilità di essere perdonato rispetto al secondo.
E infine, le vittime ed i loro congiunti hanno già sofferto abbastanza, per doversi caricare sulle spalle anche il fardello del giudizio ultimo.
Eppure, il detenuto non dovrebbe avere alcun ruolo in queste vicende, se non quello di dimostrare, nelle parole e nei fatti quotidiani, di essere una persona diversa rispetto a quella che la giustizia dello Stato ha ritenuto colpevole di un crimine. Il detenuto può legittimamente essere convinto di esser stato vittima di un errore giudiziario, e comunque può legittimamente essere convinto di pagare per le sue azioni ogni giorno passato in una cella.
Eppure.