Pretenziosa critica letteraria
Sto finendo Americana di Don DeLillo.
Non so se l’autore sia davvero uno dei massimi romanzieri americani contemporanei, come recita la quarta di copertina. Mi auguro che la narrativa americana sia messa un po’ meglio, ma comunque mi leggerò Underworld, prima di emettere il verdetto finale.
Insieme a L’elenco telefonico di Atlantide, Americana è il secondo libro che mi passa tra le mani, nel corso degli ultimi mesi, che si sviluppa secondo lo stesso schema: duecento pagine splendide, le prime, nelle quali si descrive in modo magistrale un ambiente di lavoro; e poi, altre trecento di voli, salti, personaggi poveri e deboli, e qualche centinaio di migliaia di parole messe lì in attesa della parola fine.
E’ interessante questa capacità di parlare dei luoghi dove la gente vive davvero per dieci, dodici ore ogni giorno, di saperne tirare fuori l’essenza, di metterne a nudo le piccolezze, le meschinerie, le invidie, gli eroismi, le fatiche, di dire ciò che il lettore sperimenta quotidianamente creando immedesimazione e al tempo stesso ripulsa, e quindi coinvolgimento.
Ed è altrettanto interessante notare come poi, non appena le pagine lasciano i corridoi, gli uffici, gli interfoni, gli amministratori delegati e le colleghe puttane, le storie crollano in modo abbastanza miserevole: come se gli autori (così diversi tra loro), una volta staccati da una specie di proprio habitat, non fossero più capaci di trovare le parole per raccontare persone, storie, sensazioni.
Intendiamoci: due libri, messi di fronte alla sterminata produzione letteraria che sgomita per trovare uno spazio in libreria, non sono certamente un campione statistico di qualche valore. Ma a me, Avoledo e DeLillo sono stati “venduti” come due Romanzieri, gente che si merita la maiuscola. E allora, questo mi fa pensare. Male, certo.