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17/10/2004
Si’, certo, New Orleans va vista di notte, quando il French Quarter esplode di drink, musica, puttane e turisti. Bella, niente da dire. Molto bella.
E’ che a me piacciono altre cose, delle citta’. E allora giro il Warehouse District, pieno di vecchi magazzini e fabbriche established in 1916, forse ancora attive, chissa’. Operai che iniziano la giornata, dropouts che si alzano dagli scalini sui quali hanno passato la notte, e un silenzio, di calma ma non di morte, rinfrescato dalla brezza che arriva dal fiume.
Basta alzare la testa e girarla verso nord, per vedere i grattacieli, i grandi alberghi, le insegne famose. Vedro’ anche quelle, ma adesso vado al French Quarter, che di giorno e’ come la zona dei Navigli di Milano, piu’ bella senza gente. C’e’ una luce incredibile, si fa fatica a tenere gli occhi aperti per i riflessi, e gira la testa per la puzza di birra e vomito che piastrella l’asfalto. E’ dal primo momento che ho messo piede in questo posto che mi chiedo se New Orleans c’e’ o ci fa, e probabilmente ci fa perche’ ci e’, sembra tutto naturale, i negozi di gadget, i buttadentro, le puttane, i turisti. Sembra che ci sia un senso, e lo si capisce la mattina presto: alle nove e’ tutto piu’ vero.
Se c’e’ una cosa che non manca mai, in questa citta’, e’ la musica.
In ogni negozio, per strada, nei vicoli, davanti alle chiese, in riva al fiume. Blues, zydeco, jazz; e tutta roba allegra, poi. Per capirci, il jazz di New Orleans e’ quello degli anni Dieci e Venti, clarinetti a pioggia, ritmo, ti vedi davanti agli occhi le ballerine dei locali dell’epoca, altro che il jazz freddo che ti obbliga a “capire” (come Bjork, insomma). E’ una cosa fantastica, sul serio. Cammini in Bourbon Street – si’, quella del daiquiri e delle puttane che tirano collane dalle balconate dei locali – e ti vorresti fermare in ogni posto, a sentire per la millesima volta Mustang Sally, anche se ormai sei sveglio da venticinque ore ed hai accumulato piu’ ritardi in questo viaggio che un pendolare delle Nord in un mese.
E ti capita di uscire dal cimitero ed entrare al Louis Armstrong Park, dove c’e’ un festival di gospel, e di sederti a sentire un gruppo di ragazzini, i piu’ piccoli avranno quattro anni, e di farti quasi venire le lacrime agli occhi ascoltando questo ragazzo che avra’ quindici anni cantare come, come non lo so, ma in un modo splendido (e poi mi dicono Giorgia, o Elisa, ma lasciamo perdere), e il batterista che e’ tutto uno spettacolo di controtempi, di entrate a sorpresa, e fai fatica a vederlo perche’ avra’ dieci o undici anni ed i tamburi lo sovrastano, ma lui domina la musica. E ti capita di spostarti di duecento metri, viaggiando in un’area di sovrapposizione di note, di Jesus loves me, e trovare un altro concerto, ti puoi avvicinare fino a toccarli questi ragazzi, fino a toccare l’Hammond che riempie il parco, e guardi il pubblico e ci sono passanti, amici, ed un altro gruppo che ha appena finito il suo show e si e’ fermato ad ascoltare gli altri, che hanno cent’anni meno di loro ma alla fine cosa importa.
Sara’ perche’ e’ la citta’ del voodoo, ma tutte le guide dicono che bisogna visitare i cimiteri di New Orleans. Non che mi dispiaccia, e’ una cosa che faccio in ogni citta’, se posso. Si impara molto, dai cimiteri, sugli usi e costumi di un luogo – ma di questo, magari, se ne parlera’ un’altra volta.
Mi faccio tutta Loyola, e poi Elk, e poi Basin, e arrivo al First Cemetery.
E’ un quadrilatero piccolo, incastrato dentro un quartiere dove il 95% degli abitanti e’ nero. Tutt’intorno si vedono gruppi di amici seduti sugli scalini di ingresso delle case, famiglie sui balconi, ragazzi che giocano a football in strada. Dentro, e’ un’accozzaglia mai vista di tombe, tirate su apparentemente senza ordine ne’ idee; spesso non c’e’ nemmeno lo spazio fisico per passare tra l’una e l’altra.
Tanti nomi francesi, visconti nati a Kingston ed a Versailles, due manciate di nomi anglosassoni, un bel po’ di italiani. Avendo girato piu’ d’una volta il Monumentale di Milano, non mi stupisco nel vedere che la tomba comune piu’ grande e splendente tra tutte, ancora perfettamente tenuta, e’ quella degli italiani, gente che spese quarantamila dollari di un secolo fa per far preparare questo monumento in patria, e poi farlo arrivare via nave in riva al Mississippi.
Mi fermo a guardare la tomba di Eliza Lewis, prima moglie del Governatore della Louisiana, morta a vent’anni il ventisette settembre del 1804; la lapide che sta sulla sinistra e’ quella di sua figlia Cornelia, morta lo stesso giorno all’eta’ di tre anni. Quella che sta a destra ricorda il fratello, morto in un duello fatto “per difendere l’onore del cognato”.
Le tombe sono miste. Cattolici e protestanti, tutti insieme, anche se il cimitero e’ cattolico. La chiamano The Big Easy, New Orleans, e ci sara’ pure qualche motivo.
Passo davanti al Lousiana Superdome. Tra un paio d’ore giocheranno due squadre universitarie di football. Migliaia di spettatori, tutti neri. Tutti belli, allegri, tutti con un bicchiere in mano, tutti con la maglia della loro squadra. Moltissime donne, tanti bambini, un buon numero di anziani (il piu’ bello e’ una specie di patriarca vestito di blu e giallo – Southern University Tigers – che guida la famiglia camminando dentro ad un paio di stivali di pelle di coccodrillo; d’altra parte, questa e’ Gator Land).
Polizia, zero. Qui, come nel resto della citta’, che gira trascinando i passi come trascina le parole di questa specie di inglese che faccio una fatica maledetta a capire. Mi viene in mente Times Square, a New York, dove, ad ogni ora del giorno e della notte, si legge il display con l’indicazione del National Security Alarm: il giallo se lo sono scordato, l’arancione e’ la regola, quando si passa al rosso la citta’ va in fibrillazione. Qui niente di tutto questo, dell’11 settembre non c’e’ quasi traccia.
Guardo il fiume di tifosi in attesa della partita, quelli che tra un’ora si alzeranno a cantare l’inno con la mano sul cuore. Poi mi cade l’occhio su un cartello. E’ proibito portare dentro lo stadio lattine, bottiglie, armi, missili, fuochi d’artificio…
Malpensa, in coda per l’imbarco. Alle 10.10 si presenta il passeggero Fonzarello e, liberi di crederci o meno, veste un giubbotto di pelle. Nera.
Alle 10.15 arriva uno steward Delta, con trolley d’ordinanza e sacchetto Esselunga, dal quale spunta una confezione di Fagolosi (dico, ma in Georgia non hanno i grissini?).
Sul volo, alle 15.00 passa una hostess (un raggio di sole, una versione minore di Whitney Houston in “Bodyguard”) spingendo l’osceno carrello dell’ancor piu’ osceno duty free merchandise; quando mi da’ le spalle, posso ammirare lo zainetto rosa shocking che indossa con palese vergogna, all’interno del quale fa bella mostra di se una Barbie.
Mi pare un segno del destino il fatto che io stia leggendo Una banda di idioti.
PS1 – Quasi dieci ore filate di nuvole. Una vita ad aspettare di avere il posto-finestrino-lato-Groenlandia, e poi. Vabbeh.
PS2 – Una banda di idioti e’ una compagnia straordinaria. L’ho finito dalle parti di Philadelphia, ed ho passato l’ultima ora di volo in condizioni di crisi di astinenza da Ignatius Reilly, e soprattutto da Jones, il negro.
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