Dolori familiari
Mio padre, benchè sardo di nascita, è interista.
Bon, ognuno ha i suoi difetti, non stiamo qui a sindacare.
E comunque: lui era allo stadio, quella sera del 1963, quando l’Inter battè il Liverpool 3-0, semifinale di Coppa dei Campioni. Herrera, Corso, Jair, Mazzola, gente così. Uno stadio che diventa un corpo, la gioia allo stato puro, la consapevolezza che sei testimone di un evento speciale.
Ma quello è il passato. Remoto.
Una sera di qualche anno fa (beh, “qualche”: diciassette), rientro a casa dopo essere stato al cinema a guardare qualcosa di dimenticabile (infatti).
Apro la porta della sala, chiusa per non dare fastidio a mia mamma, già a letto immersa nel “Corriere della Sera”.
Mio padre non è un giovialone, ma è una persona serena e poco incline alla tristezza. Lo guardo, ed ho come l’impressione che gli abbiano asportato la colonna vertebrale. Sfatto, le braccia appoggiate sulla poltrona, lo sguardo smarrito.
“Pa’, cos’è successo?”
“Hanno perso” (e in quella terza persona plurale c’era tutta la disillusione del distacco definitivo dai propri sogni)
“Beh, capita”
“In casa. Con il Turun Palloseura. Unoazero”
“Con chi?”
“Finlandesi”
“…”
“…”
“Bevi qualcosa, pa’?”
“Grazie”
Io voglio bene, al mi’ babbo. Di Severgnini non me ne frega nulla, ma cazzo, banda di pippe in nerazzurro, fatelo per lui, per quelli come lui.
Dedicato al mi’ babbo, e al fratellino Lester