Avrà trentacinque anni, più o meno, e si porta in giro una faccia buona, stanca e smarrita.
Mi si avvicina mentre cammino verso la macchina, dopo le consuete dieci o undici ore filate, giusto un caffè, che tanto ci si fa l’abitudine.
Ha in mano un foglio che immagino essere una bolla di consegna; dietro le sue spalle, ad una ventina di metri di distanza, vedo un Tir, una di quelle bestie che, anche senza volerlo, quando ti sorpassano in autostrada ti spostano come un fazzoletto di carta usato.
A gesti e parole smozzicate, in un misto di lingue latine, mi chiede se il magazzino è ancora aperto. Gli mostro l’orologio, gli faccio capire che è tardi, che il ricevimento merci ha già chiuso i battenti.
Allarga le braccia sconsolato e alza gli occhi al cielo con un sorriso sghembo, malinconico e fatalista. Prova a chiedermi a che ora si potrà presentare domani, e io provo a spiegargli di venire un po’ prima delle otto. Calcola velocemente e, non so perchè, mi dice che ore saranno, in quel momento, in Portogallo.
Poi, in modo che non capisco se timido o vergognoso, mi chiede se questa notte può dormire là fuori, nel parcheggio. Gli faccio capire che sì, certo, basta che parcheggi il camion per il lungo, su un lato del piazzale, e non ci saranno problemi. Spero.
Mi ringrazia. Se ne torna verso la sua casa a diciotto ruote. Io salgo in macchina, accendo le luci e parto. Tra venti minuti sarò a casa, in famiglia, e dirò che sono stanco e che è stata una giornataccia.