Regolarmente, dopo un qualsiasi atto terroristico di una qualche gravità, arriva la richiesta di aumentare quantità, qualità e durata dei controlli sulle comunicazioni interpersonali: e-mail, telefonate, fax, sms e così via.
Ogni volta, la domanda che ci viene veramente posta è molto semplice: a quanta libertà sei disposto a rinunciare, in cambio di una maggiore sicurezza?
Io, sinceramente, non so cosa rispondere. L’idea che qualcuno tenga traccia delle mie comunicazioni – private o professionali, poco cambia – mi disturba; peraltro, mi dico, se questo dovesse impedire a qualcuno di farmi saltare in aria mentre sto percorrendo la tratta Molino Dorino – Cadorna FN, sarebbe un sacrificio accettabile, come il denudarsi in pubblico per prendere un aereo (chi conosce gli aeroporti americani sa di cosa parlo).
Ma: la rinuncia che ci si chiede, porterebbe realmente un beneficio? Non sono abbastanza esperto in materia: a pelle, direi che questo sarebbe molto modesto, ma magari mi sbaglio. E poi: la rinuncia di cui si parla non è soltanto quella più evidente, la rinuncia a che un invito a cena o l’invio di un curriculum sia soltanto un affare che riguarda il sottoscritto e il destinatario del mio messaggio; è molto di più, è la rinuncia al mio, al nostro modo di vivere. E mi chiedo se rinunciarvi non sia già un altro modo di morire.
Repubblica.it