Nel nome del nonno (Christmas tale)
Grazie a Dio, in questa città non conosciamo nessuno, e nessuno ci conosce. Così, non dobbiamo dare spiegazioni, non dobbiamo affrontare sorrisini, non dobbiamo sopportare l’incredulità.
Perché, vedete, non è facile nemmeno per noi. Credere a quello che ci sta succedendo, dico. Insomma, mettetevi nei nostri panni. Io, che faccio il falegname come mio padre e mio nonno: più per non dare un dispiacere a loro due chiudendo la bottega, ma sempre falegname sono. E mi chiamo Giuseppe, come tanti uomini del paese. Poi, mia moglie. Una bella ragazza, sapete. Di quelle che si dice “acqua e sapone”, una ragazza semplice e forte, capace di tenere la casa come nessun’altra. E sì, certo: si chiama Maria. Come tante, tante altre donne del paese.
Volevamo un figlio. Lo abbiamo sempre voluto, fin da prima di sposarci, fin da quando abbiamo deciso di metterci insieme, di fidanzarci. Fin dalla prima volta che abbiamo fatto l’amore, nascosti nell’ovile di proprietà di quello che sarebbe diventato mio suocero. C’era un asino, che non vedevamo ma che potevamo sentire bene, quando ragliava legato alla staccionata esterna, e naturalmente c’erano le pecore, che mangiavano tranquille l’erba fresca e verde della primavera. In effetti, mancava il bue, ma mi crederete se dico che non ne sentivamo la mancanza. Ci amavamo tanto, così come oggi. Facemmo l’amore molte altre volte, dopo quel giorno (molte, dico, ma non so se è vero, perché molto e poco sono parole che cambiano di senso con le bocche che le pronunciano), e sempre pensando al figlio che un giorno avremmo avuto.
Ma quel giorno non arrivava mai. Iniziammo a preoccuparci, perché Maria era giovane ed aveva molto tempo davanti a sé, ma io cominciavo ad essere anziano, e non volevo diventare padre all’età in cui si dovrebbero invece avere dei nipotini da curare. Decidemmo di fare i mille esami e di sottoporci alle mille torture piccole e grandi che Maria sopportò grazie alla sua grande fede e che io sopportai grazie a Maria. E alla fine, i medici ci presentarono una soluzione. Quella che potete immaginare, sì.
Così, oggi ci troviamo in questa clinica di una grande città molto distante dal piccolo paese dal quale io e mia moglie veniamo. Io, Giuseppe il falegname. Lei, Maria la casalinga. E il bambino nel suo ventre, figlio del seme di uno sconosciuto entrato grazie ad una siringa. Ammetterete che si tratta di una situazione un po’, come dire, strana. O forse no, ma io non ho studiato molto, e non so come definirla altrimenti.
Perché poi, vedete, non è finita qui. Maria ha iniziato il travaglio qualche minuto fa. Le infermiere mi hanno detto di uscire a fumarmi una sigaretta per calmarmi, e poi di tornare per darle una mano a partorire. Poco fuori dall’entrata del reparto ho incontrato un prete che passava a benedire il reparto e le future mamme, mentre al termine del corridoio, a fianco della grande vetrata che permette di vedere i bambini appena nati, ho visto una piccola montagna di pacchetti, lucidi di carte colorate e nastri arricciati. Sarò io che mi faccio suggestionare facilmente, ma il prete e i regali, ecco, mi hanno fatto venire in mente i re magi, e l’oro, e l’incenso, e la mirra.
Adesso sto tornando da Maria. Ho guardato in fretta l’orologio; mancano solo sei minuti a mezzanotte, e non credo che il bambino nascerà prima che il giorno finisca. No, non credo. Nascerà domani. E domani è il venticinque dicembre.
A questo punto, forse vorrete sapere se abbiamo deciso il nome del bambino. Sapete, dalle nostre parti ci sono ancora, anche se meno forti di un tempo, certe usanze, come quella di dare al nipote il nome del nonno paterno. Io vi vedo, mentre roteate gli occhi e dite “ma no, figurati, non è possibile”; ma non è colpa mia, se anche mio nonno portava un nome tanto comune nel paesino dove siamo nati e cresciuti. Salvatore, già.