Faccio il pianista in un bordello
Di tanto in tanto, mi capita di tenere seminari o presentazioni sul marketing diretto – quella cosa che mi dà da mangiare ma che non riesco a spiegare a mia figlia (lei ha imparato che deve dire che il papà lavora in pubblicità, ma non so se ho fatto un grande affare – come si vedrà tra poco).
Inizio più o meno sempre allo stesso modo: un abitante di una metropoli occidentale riceve tra mezzo e un milione di messaggi commerciali in un anno. Gli spot in televisione e le inserzioni sulla stampa sono solo una minima parte, di questi; solo sulla tastiera del mio portatile ho due loghi HP, il logo Windows, quello Intel, quello Celeron, quello Microsoft e quello WinXP. Se incontro una bloggeuse del MicroBlogGiallo, le vedo addosso tanta pubblicità quanta se ne trova sulla tuta di Schumacher. Se entro in un supermercato, ogni etichetta vale uno spot – e contate un po’ voi quante ne vedete su uno scaffale medio. Insomma, ci siamo capiti.
Ora, la pubblicità (ma il termine è generico, un calderone nel quale entra quasi qualunque cosa) a tante persone sembra, semplicemente, “troppa”. C’è troppo rumore, e il rumore non fa altro che aumentare. Non solo. Tante persone hanno l’impressione che la pubblicità sia il Grande Fratello, o il Grande Vecchio, che determina i contenuti della televisione, della stampa, del web, dello sport – e, nel nostro paese, anche della politica.
C’è del vero, e sarebbe stupido negarlo.
Ma, prima di tutto: la pubblicità non è un’entità a sè stante, dotata di vita propria. Accusare la pubblicità è come accusare un coltello: ce la si prende con lo strumento, e non con chi lo crea e – soprattutto – con chi lo usa (male).
La pubblicità non è altro che il prodotto del lavoro e del pensiero di molte persone. Prodotto buono o cattivo, questo è un altro discorso, ma bisogna impostare correttamente i termini del discorso. Non solo: chi dà vita alla pubblicità, i pubblicitari e i loro clienti, o chi, ad esempio, fa la fila al freddo per entrare nei negozi di via Montenapoleone? Faccio un altro esempio. Immagino che nelle quattro settimane prima di Natale sarete stati tempestati di lettere che vi chiedevano donazioni per questa o quella associazione caritatevole: Unicef, Save the Children, Emergency, e così via. Per lavoro, conosco quelle azioni pubblicitarie; so quanti messaggi vengono spediti, quanti ritornano, quante sono le donazioni. Credetemi: funzionano. Praticamente tutte. Non funzionassero (cioè: non portassero degli “utili”, e consistenti), non verrebbero fatte.
Da ultimo: la pubblicità non è troppa. Sono troppe le aziende. E’ brutto dirlo, siamo cresciuti nel mito della concorrenza, e questa ha bisogno di tanti attori. Ma ognuno di questi ha bisogno, per sopravvivere, di parlare al resto del mondo (a dire il vero, avrebbe ancor più bisogno di ascoltare, ma transeat). Fiat, Renault e Peugeot, per la natura stessa delle cose che fanno, si rivolgono (si devono rivolgere) alle stesse persone, e inevitabilmente lo fanno nello stesso modo e negli stessi tempi. E devono “alzare la voce”. Anni fa conobbi un alto dirigente di Sipra, la concessionaria di pubblicità della Rai. Mi raccontò che il suo più grande investitore, in assoluto uno dei tre più grandi in Italia, spendeva ogni anno il 20% in più di quanto gli sarebbe stato sufficiente, al solo scopo di impedire al suo principale concorrente di acquistare spazi che gli avrebbero probabilmente permesso di diventare il primo “player” del mercato. Era ed è una follia, con tutta evidenza: ma se un’azienda vende merendine, deve fare pubblicità in televisione, non ci sono santi. E se le aziende sono due (tre, dieci, cinquanta), beh, sapete bene cosa succede.
Insomma, il mondo non è bello. In questo post di Sergio Maistrello (e, soprattutto, nei suoi commenti) chi fosse interessato all’argomento troverà parecchi spunti e punti di vista. Vi dico solo due cose: provate a non far dipendere il giudizio sul funzionamento del sistema dai vostri gusti e/o idiosincrasie; e diffidate dagli annunci di incipiente Armageddon.
Sergio Maistrello