Capire tutto
Credo di averlo già scritto un paio di volte, nell’ultimo anno: mi rendo conto che non sono più capace di stare davanti ad uno schermo a guardare immagini “dolorose”. Non sono in grado di (ri)vedere film come Schindler’s List o La vita è bella, non me la sento di affrontare racconti di dolore, malattia, sopruso – e non c’è differenza tra fiction e documentario. Ho tre libri che ciclicamente rileggo: Cent’anni di solitudine, Tre uomini in barca e Se questo è un uomo. Oggi Levi occhieggia dalla libreria, ma io non riesco ad allungare la mano. E’ come una specie di insensata paura, di ansia, di struzzesca necessità di nascondere la testa sotto la sabbia.
Eppure Dachau me lo sono andato a cercare. Ho voluto andarci. Di più: l’ho sentito, sapendo di essere in zona, come una specie di obbligo. Così come a Budapest ho voluto andare al museo dell’Olocausto e vedere gli oltre centomila nomi di vittime della più violenta e rapida deportazione che i nazisti abbiano messo in atto durante la guerra, e a Varsavia mi sono fatto portare all’unica sinagoga scampata alla devastazione della città. C’è qualcosa che non capisco, di me stesso: ma forse non si deve cercare di capire tutto.