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20/11/2008
Ieri ho fatto quattro chiacchiere con un blogger della prima ora, e per cinque minuti ci siamo dedicati ad uno degli sport prediletti di noi anziani – il “ai nostri tempi (qui era tutta campagna)”.
Tra un esercizio di autocompiacimento e l’altro, riflettevamo sul fatto che il pezzo di rete nel quale entrambi siamo entrati anni fa aveva una caratteristica fondamentale che manca a quella di oggi: la memoria. Usavamo uno strumento, il blog, effimero ma duraturo al tempo stesso. Perchè un post scaccia l’altro, è vero: ma rimane tutto lì, non solo negli archivi, ma proprio come insieme delle parole pensate, scritte, commentate. Oggi invece gran parte di queste parole si gettano nel fiume della conversazione 2.0, quella che chi ne sa chiama social; e non solo vivono ancora meno di quanto vivessero quelle dei post di un tempo, ma si perdono senza lasciare traccia di sè. I blog, con il passare del tempo, diventano delle biblioteche: luoghi nei quali fermarsi, dopo aver passato (anche piacevolmente) un po’ di tempo a fare il giro delle ombre al bar di Twitter e poi al pub FriendFeed e poi al caffè Facebook; fermarsi, e recuperare tempo e senso, e restare un po’ in silenzio, chè anche la buona conversazione viene a noia, se si esagera.
19/11/2008
– Passami il cognac, che qui è come essere sul Titanic.
– Mah, a me pare un traghetto della Tirrenia.
[Grazie a Ubu per la non volontaria collaborazione]
A me non interessa se Zavoli è nato quando le carrozze trainate dai cavalli facevano ancora concorrenza alla Tin Lizzie della Ford; non mi interessa nemmeno sentir dire che è “uno del mestiere, uno che conosce la televisione” – che poi ci sarebbe da discutere, pur parlando di Rai, di quale diavolo di televisione stiamo parlando. Mi affascina il fatto che adesso quello di Zavoli sembra essere il Nome: e allora, santiddio, fosse anche coevo di Nabucodonosor, perchè non è stato candidato prima, subito? [E’ una domanda retorica, non affannatevi a farmelo notare]
18/11/2008
Mi è arrivata una mail da una signora che si firma “Change Consultant”.
Dice “devo vedere degli amici, gente che grazie a Dio non ha un blog”.
A me, dei miei amici, che abbiano o non abbiano un blog non me ne frega nulla. Però, stamattina Ubu si è ricordato di questo, e mi è venuto da dire che invece no, grazie a Dio questa gente e molta altra ancora un blog ce l’aveva e nella maggior parte dei casi ancora ce l’ha – tu pensa quel che vuoi, io “dovrei raccontarti tutto questo, lo so, e se vuoi lo farò: ma spero che tu abbia la mia stessa fortuna, e possa fare a meno dei miei racconti”.
Chi eravamo
Nell’ultimo anno, dagli scaffali della grande distribuzione italiana è stata rubata merce che vale, nell’insieme, qualcosa come tre miliardi di euro. Sembra che l’abbigliamento sia particolarmente gradito (immagino perizomi e collant, se non altro per maggiore facilità di occultamento), ma anche alimentari e hi-tech se la cavano bene. Quel che mi stupisce è che i furti siano cresciuti negli hard discount e diminuiti nei grandi ipermercati, perchè se devi rubare qualcosa allora tanto vale cercare di farlo “bene” – ma forse è solo questione di quanto attenta è la vigilanza interna, non so.
Italia Oggi (solo per abbonati)
17/11/2008
Nel 1979 ero, in fondo, troppo piccolo per capire la portata epocale di una tournee musicale. Per me, De Andrè + PFM è sempre stato il violino di Zirichiltaggia, e comunque una manciata di canzoni belle, che non mi sono ancora stancato di riascoltare, di tanto in tanto. Però sabato ho comprato questo libro, ed ho capito un po’ di più, e ho quasi provato nostalgia per un tempo che ho necessariamente vissuto a metà.
IBS
16/11/2008
L’aspetto per me più interessante della schermaglia da pianerottolo tenutasi in casa del soldato Cundari è che ancora si possa discutere – apparentemente prendendosi, e immagino presumendo di esser presi sul serio – della possibilità di “sapere cosa succede là fuori”. A me pare un’enormità tale da rendere chiaro a chiunque abbia un minimo di capacità di discernimento che al riguardo si può solo ragionare per assurdo, ma evidentemente si tratta di un’opinione non troppo condivisa: il che non mi stupisce molto, per diverse ragioni. Una è che abbiamo tutti bisogno di ragionare per approssimazioni e generalizzazioni per riuscire a mettere qua e là qualche paletto che ci permetta di illuderci di capire qualcosa di ciò che capita nel mondo, o quantomeno a noi stessi. Un’altra è che senza queste generalizzazioni l’intero sistema dei mass media (del quale diversi fra i contendenti sopra citati fanno parte) crollerebbe per manifesta inutilità. Insomma, un po’ per non uscire pazzi, un po’ perchè we’re all in for the money, crediamo tutti di sapere cosa succede in città, pensiamo di conoscere la gente, ciò che gli passa per la testa e il perchè di questo e quel comportamento sociale. La realtà è che tutti, tutti noi, anche quelli dalla più ricca vita sociale, quelli che incontrano ogni sera venti persone ad un happy hour, duecento ad una premiere, quelli che hanno mille amici su Facebook e che leggono tutte le riviste del mondo (Palin-style, verrebbe da dire), quelli che passano la vita a parlare con i tassisti e i panettieri e gli edicolanti, tutti indistintamente conosciamo solo il nostro microcosmo: i nostri colleghi, la nostra famiglia, fornitori e clienti, cassieri di banca e commesse di negozi di abbigliamento, amici, amici degli amici e amici degli amici degli amici lungo tutti i famosi sei gradi di separazione, conosciamo solo loro e forse nemmeno tutti e chissà quanto bene. Ma preferiamo non ricordarcelo per non ammettere la vanità di quasi qualsiasi nostra opinione che riguardi la società e l’universo mondo nel quale questa alberga. Poi c’è gente che fa il mio lavoro, che passa le sue giornate a provare a ridurre il “là fuori” ad una infinita serie di mondi sempre più piccoli; ma siamo pochi, e abbiamo la stessa credibilità del pianista nel bordello, e il bello è che finiamo per dare retta a chi ci dice “io lo so cosa succede, e cosa pensa la gente là fuori”.
Quadernino
15/11/2008
O io mi sono perso qualcosa in questi ultimi mesi, oppure la satira in Italia non gode di gran buona salute.
Repubblica.it
14/11/2008
L’articolo di D’Avanzo sulla sentenza-Diaz merita una lettura. In particolare, è la fotografia del cosiddetto “stato di eccezione” ad essere secondo me interessante. Da un lato perchè illustra, con una certa chiarezza, l’atteggiamento di fondo di questo governo – un misto di decisionismo aziendalista e di insofferenza verso un sistema di regole che viene avvertito come una camicia di forza che impedisce il raggiungimento dell’obiettivo del (buon) governo. Dall’altro perchè fa riflettere su quanto questo atteggiamento non sia caratteristico del solo esecutivo e del manipolo parlamentare che lo sostiene, ma sia piuttosto largamente diffuso nella cosiddetta società civile. In altre parole, io credo che il famoso “lasciatemi lavorare” (e il corrispondente “lasciatelo lavorare”) non sia mai passato di moda, anzi. E questo non solo per il fascino che l’uomo forte esercita sull’italiano medio, ma anche – e chissà: forse soprattutto – per la diffusa sensazione che il sistema di regole, per quanto democraticamente stabilito, sia vecchio e sbagliato, che il suo rispetto ci metta in situazione di inferiorità nei confronti di cento altri paesi e che quindi lo “strappo alla regola” sia accettabile (ed anzi augurabile) in nome del principio secondo il quale il fine giustifica i mezzi. Ho la sensazione che in tanti ci stiamo acconciando a pensare che godere di un po’ meno di democrazia non sia poi questo gran male, perchè la democrazia che conosciamo è farraginosa, eccessivamente formale e per certi aspetti persino controproducente. Rileggendo quello che ho scritto, la cosa che mi preoccupa è che mi rendo conto, io vecchio “sincero democratico”, che ogni tanto quest’ultimo dubbio mi viene davvero, per stanchezza o per convinzione poco importa.
Repubblica.it
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