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18/09/2009
Credo che a stare tanto “in rete” si prendano alcune cattive abitudini. Ci si abitua, ad esempio, ad avere notizia di qualunque cosa in tempo reale, come si suol dire: e non parlo solo dei fatti che succedono alle persone che poi immediatamente le riversano su un qualsiasi social network – il fortissimo temporale in Liguria, la scossa di terremoto in Abruzzo, l’eliambulanza che volteggia su Mestre -, quelli insomma che fanno parlare di citizen journalism. A stare in rete ci si abitua anche alla comunicazione immediata di ciò che chiunque altro può avere sotto gli occhi, di ciò che in moltissimi hanno sotto gli occhi nello stesso identico momento, e che quindi difficilmente può essere definito come notizia: il gol di Inzaghi, la proclamazione di Miss Italia, cose così. Se siete su FriendFeed ci potete scommettere i dieci Euro che avete in tasca: alle 21.04 Diego insacca con un preciso destro dai sedici metri, alle 21.04.01 è una raffica di “Goooooooolllllllll!” in una poderosa sagra del già visto e del “ma non mi dire”.
Ieri nessuna – ripeto: nessuna – delle 113 persone delle quali mi arrivano automaticamente gli aggiornamenti sulla home page di FriendFeed ha dato “notizia” della morte dei militari italiani a Kabul, magari semplicemente rilanciando un flash di Repubblica.it, prima di un paio d’ore dall’avvenimento. Nel frattempo, durante la mattina si erano susseguiti thread da decine di interventi sulla depilazione femminile, su una job search di Wired, sulla necessità di un idraulico a Roma, come se nulla fosse successo. Mi è venuto da fare un po’ di ironia al riguardo e ho citato la teoria di un’amica, la quale sostiene che su blog e social network una persona dotata di raziocinio scrive solo delle cose delle quali non gli interessa nulla, il che dimostrava quanto il tragico fatto fosse importante per tutti. Alcuni mi hanno risposto che loro sapevano, ma che non avevano scritto nulla perché quello era il momento del dolore, altri mi hanno detto che il silenzio dipendeva dal non aver voglia di accendere il fuoco delle polemiche “cosa ci stiamo a fare in Afghanistan, gli americani cattivi, l’invasione” – tutti confondendo, secondo me, l’esprimere un giudizio di valore con il condividere una notizia.
Non è, quella che qui sto raccontando, una cosa molto importante, me ne rendo conto. Ne parlo perché sui social network ci stiamo in tanti, e perché forse non ho di meglio di cui scrivere: so benissimo di frequentare un microcosmo, che – in quanto tale – non è rappresentativo che di se stesso; è solo che mi piacerebbe togliermi il cattivo retropensiero che tanti provano fastidio a parlare della gente in divisa quando questa non fa chiaramente la figura del cattivo. Magari è tutto molto semplice, magari quello di ieri è stato solo un caso, magari sono io che sono inutilmente e immotivatamente sospettoso – mi piacerebbe davvero che fosse così.
17/09/2009
Magari a me sfugge qualcosa, ma mi pare bizzarro che il difensore d’ufficio del PresDelCons ne perori la causa sostenendo ciò che dicono molti suoi accusatori, e cioè che con quella vagonata di procedimenti penali pendenti a suo carico dovrebbe dimettersi.
Repubblica.it
15/09/2009
La incontro ogni giorno, alla stessa ora, nello stesso punto. E’ elegante di quell’eleganza dura da manager, alta, i capelli biondi corti, e un’espressione concentrata che io, da dietro i finestrini della mia macchina, non riesco a capire se sia tagliata con una dose di tristezza o una di malinconia. Ogni mattina che Dio manda in terra, io vado in ufficio e lei va al cimitero, una piccola ventiquattrore di cuoio in una mano e un piccolo mazzo di margherite nell’altra. E’ una di quelle cose che ti aspetti da una persona anziana, da qualcuno che ha abbastanza tempo e abbastanza vuoto per incagliare le lancette del proprio orologio su una visita maniacale e abitudinaria: e invece lei avrà forse quarant’anni, e in quella borsa sono sicuro che tiene una decina di biglietti da visita sui quali è riportata una mansione altisonante, e sono altrettanto certo che al suo arrivo in un ufficio di un palazzo del centro storico la attendono riunioni e documenti e videoconferenze e tramezzini mangiati di corsa senza avere nemmeno il tempo di alzarsi dalla scrivania. Mi chiedo di chi è la tomba che va ogni giorno a visitare in questo cimitero di periferia, di cui io ho scoperto l’esistenza solo qualche mese fa, un genitore, un marito, un figlio che forse frequentava la scuola elementare che sta più avanti, trecento metri sulla destra. Mi chiedo se piange ancora, oppure se si fa riempire dal silenzio che in questo lontano angolo di Milano si riesce ancora a sentire alle nove del mattino. Mi chiedo perché i fiori sono sempre e implacabilmente delle margherite bianche. Mi chiedo perché, senza conoscerla, senza sapere nulla della sua storia, ogni mattina mi sento triste per lei.
14/09/2009
La fonte non è forse un modello di neutralità in materia, ma le diverse decine di migliaia di chilometri che percorro ogni anno mi permettono di considerare almeno verosimile la notizia del forte incremento del numero di quelli che alla richiesta di patente-e-libretto reagiscono con una gragnuola di cazzotti.
Repubblica.it
12/09/2009
Ieri sera sono andato a fare un giro alla Festa Democratica di Milano. Civati avrebbe dovuto presentare il suo libro. Ha parlato un’ora, dedicando due minuti a Berlusconi e cinque a Formigoni (forse meno); il resto a sparare su Bersani e Franceschini – quando dici il nuovo che avanza.
Ho scritto queste due righe come le si scrive sui social network, di fretta e puntando all’effetto immediato. Però, tornando a casa, ci ho pensato sopra un po’, cercando di capire cosa c’era che non andava in quel che avevo visto e sentito, ma non so se mi sono davvero chiarito le idee. Ho letto le tre mozioni, ho ascoltato dibattiti, ho letto interviste e post, e quel che mi rimane di questa Estate Democratica è la sensazione shakespeariana del tanto rumore per nulla: i due candidati che ce la possono davvero fare non sembrano essere dei fulmini di guerra capaci di rivoltare il PD come un calzino rendendolo qualcosa degno di un’emozione e di un impegno concreto; il terzo candidato, quello che c’è per soddisfare l’idea di esserci, nulla può fare se non sparare raffiche di fuoco amico per provare a convincere almeno cinque elettori ogni cento di essere meglio “di quei due là”. Io continuo a pensare che fra i tre uno che merita un po’ più di fiducia c’è, anche se come troppo spesso capita buona parte della compagnia di giro che lo circonda e sostiene è capace di smorzare anche i più fervidi entusiasmi; nonostante questo, lo preferisco di gran lunga a chi si è dato come orizzonte quello del proprio orticello, perché si sa: dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io.
11/09/2009
Qualche giorno fa sono tornato nell’azienda dove ho lavorato per sette anni. Ho fatto il giro dei tre piani, ho salutato, mi sono fatto offrire il caffè, ho fatto la riunione che mi era stata chiesta, ho preso appunti; quando quella persona mi ha chiesto “come va?” le ho risposto con un mezzo sorriso “bene, grazie” e ho cambiato discorso. Ero entrato sapendo bene cosa dire, avendo preparato a puntino quel mix di sufficienza e sarcasmo che mi viene tanto bene se mi impegno solo un po’; ma quando ho avuto l’occasione di usarlo ho lasciato perdere, semplicemente perché sapevo che non ne sarebbe valsa la pena, perché sapevo che dire loro la semplice verità – sto davvero bene, né più né meno – non mi avrebbe fatto stare meglio né avrebbe fatto loro capire quanto sono riusciti a rovinare un bell’ambiente e la vita di un buon numero di persone. Finita la riunione ho risalutato, ho soffiato a distanza un bacio alla centralinista che era impegnata al telefono e non poteva parlare, ho attraversato il parcheggio e sono salito in macchina – e per un caso della vita dopo un paio di minuti lo stereo ha passato questa canzone dei R.E.M., quella che dice che vivere bene è la miglior vendetta, che è la cosa che quasi nessuno capisce – nessuno capisce che vivere bene è una cosa di ciascuno, non comparabile a quella degli altri, nessuno capisce che non è una gara, nessuno capisce che quello dello specchio riflesso è un gioco da bambini che rovina anche quel poco di buono che hai. Molto simbolicamente, per andare verso il mio nuovo lavoro ho dovuto imboccare una rotonda: l’ho percorsa tutta, trecentosessanta gradi o giù di lì, e ho alzato il volume.
10/09/2009
A me il fatto che Paolo Villaggio, uno che ha costruito un’intera carriera su un solo personaggio – il Mediocre per eccellenza – rendendolo l’eroe di tutta una nazione che vi si è identificata per decenni, sputtani Mike Bongiorno per la sua presunta mediocrità, beh, è una cosa che sono indeciso se mi fa ridere o mi mette tristezza.
L’Unità (via un po’ di gente che ha linkato l’articolo su FriendFeed)
Tolto il lamento, rimane il vuoto.
09/09/2009
C’è chi prova smarrimento per la morte di Mike Bongiorno perché sommerso dalla nostalgia di ciò che eravamo; e c’è chi lo prova per la paura di ciò che siamo diventati.
[Leggendo questo pezzo di Michele Serra su Repubblica]
08/09/2009
Una volta, quando qui era tutta campagna, il fuoco amico era prerogativa della sinistra. Una volta, però.
Repubblica.it
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