|
|
28/02/2010
La cosa fantastica dei social network è l’immane quantità di conversazioni private che ospitano.
27/02/2010
La coppia cammina sul marciapiede, con il passo ansioso dei milanesi durante la pausa pranzo. E’ una giornata di sole, fa caldo, lui ha un mezzo sorriso dietro gli occhiali da sole, lei canticchia una canzone ascoltata pochi minuti prima in macchina. Mentre attraversano l’incrocio, lei estrae dalla tasca il palmare, lo guarda, per qualche secondo scrive veloce senza mai cambiare espressione. Continuano a camminare guardando distrattamente le vetrine dei negozi che separano l’ufficio dal bar dove tutti i giorni vanno a mangiare. Mentre lui sta per dire qualcosa – una frase qualsiasi – lei riprende il palmare, legge, sorride, scrive veloce, rimette il telefono in tasca, guarda lui e gli regala un sorriso. Lui non dice nulla, le cede il passo all’entrata del bar, vanno a sedersi, ordinano. Scambiano quattro chiacchiere, un po’ di lavoro e un po’ personali; il cameriere mette sul tavolo le due insalate e le due bottigliette di acqua minerale naturale. Lei dà un’occhiata al palmare che ha appoggiato sul tavolo, vicino al bicchiere; distoglie gli occhi, le passa un’ombra sullo sguardo. Lui sospira, mangia in silenzio. Lei riguarda il palmare. Lui, senza averne bisogno, tira fuori il suo – guarda il display, controlla la posta, lascia un commento che avrebbe potuto scrivere mezz’ora dopo. Finiscono di mangiare, lei lo guarda, sorride e gli chiede se, dato che hanno una decina di minuti ancora a disposizione, ha voglia di fare quattro passi per andare a bere un caffè più buono di quello che fanno in quel bar. Lui ringrazia, e le risponde che ha un documento da consegnare assolutamente entro le quattro del pomeriggio.
La vita è strana, davvero. Perché capita che le strade di persone che non si sono mai incontrate fisicamente finiscano per dividersi – o almeno per allontanarsi – quando queste decidono di seguire social network diversi. Reti diverse, relazioni diverse. Vite diverse, alla fine.
26/02/2010
Voi magari un’idea precisa sull’affaire-Google di questi giorni ce l’avete. Io ho letto un po’ di tutto, e da omino della strada quale in fondo sono quell’idea non ce l’ho, non sono riuscito a farmela. La libertà di espressione, Larry Flint, la Rete come la Grande Discarica della Modernità, quelli che si richiamano al primo emendamento e quelli che ricordano che l’apologia di fascismo è reato in Italia e non solo e un motivo ci sarà. Ho questa impressione, che tutti – tutti quelli che ragionano onestamente, almeno – un po’ di ragione ce l’abbiano, e che l’unica cosa certa è che la madre degli idioti (e dei violenti, e dei criminali) è sempre incinta. Togliergli la parola non serve, il proibizionismo non ha mai funzionato; ma anche dargli il megafono non è un’idea tanto intelligente, in fondo.
24/02/2010
Quando esco dalla fermata della metro di Earl’s Court guardo le ore sul display del telefono. Calcolo quanto sono stato fuori. Quattro ore. Nulla, in fondo – meno di mezza giornata in ufficio. Eppure non importa, non ho la sensazione che il tempo sia stato poco, che ce ne volesse ancora. L’ho capito poco prima, davanti all’abbazia di Westminster, quando mi è sembrato che fare anche un solo passo in più non sarebbe servito a nulla, che avevo avuto già tutto quello che avrei potuto desiderare dalla mia serata. Non ho sentito il bisogno di entrare in un altro pub, di andare a sentire musica, di buttarmi dentro HMV: magari la prossima volta, magari no, non importa. Penso che queste poche ore sono una metafora ben riuscita, spiegano tante cose che già so e che mi dimentico troppo spesso, che non è questione di quanto ma di come, che a volte bastare a se stessi – stare da soli e non sentire né il bisogno né la mancanza di nessuno – non è egoismo ma semplicemente ascoltarsi e ricaricare le proprie pile e coltivarsi per quel che si può e quel che si riesce. Passo l’incrocio con Warwick Road, sono arrivato.
L’ultima volta che sono stato a Londra, dieci mesi fa, c’erano il sole e il cielo azzurro e quel senso di ansia che la primavera inattesa si porta con sé. Oggi non fa freddo, non molto, e ha appena smesso di piovere, ed è quanto basta. Mansion House, Fleet Street, un pub per mangiare e bere e guardare due coppie – una di due colleghe che ridono e si battono il cinque, l’altra di lui con la chitarra in spalla e lei con i capelli rossi e la frangetta che lo guarda adorante -, e via fino a Charing Cross, e Trafalgar Square e Whitehall e Westminster e il Queen’s Walk fin sotto la grande ruota panoramica, camminando lento, una telefonata che senza dire niente dice tutto, la cassa che batte i quattro quarti, la pioggerella che inizia a scendere fresca sulla faccia mentre attraverso il ponte, la certezza di essere in una delle più belle città del mondo e che non serva altro che gli occhi per guardarla.
23/02/2010
Passiamo la sera in questo pub a quattro piani in riva al Tamigi, proprio dove inizia – o finisce – il Blackfriars Bridge, quello di Roberto Calvi. Due ore di riunione in una sala riservata e poi allright, we can move, the bar is open, e passiamo all’altra parte del nostro lavoro: un bicchiere in mano, salutare persone, prendere appuntamenti, scambiare biglietti da visita, parlare del fatto che a Milano c’è sempre meno nebbia e a Monaco sempre meno neve, ricordare quanto brutta era Orlando e mettersi d’accordo per andare a visitare Alcatraz quando a ottobre ci rivedremo a San Francisco, chiedere notizie di Tina sentendone la mancanza e prendere informazioni su un cliente forse perso definitivamente. La grande vetrata dà sul fiume, da una parte si vede la cupola di St. Paul’s e dall’altra le navi ormeggiate, diventate attrazione turistica. Esco e cammino in riva al fiume, prima il Paul’s Walk e poi il Victoria Embankment, congelo nel vento freddo mentre mi passano intorno atleti in tuta e zaino che corrono chissà dove. Leggo la storia dei Templari riportata in una targa all’ingresso della stazione della District Line, mentre l’enorme ruota panoramica manda i suoi riflessi blu sull’acqua.
Il brutto del tornare ciclicamente in certi posti è che perdi la sorpresa della novità, quello stare con gli occhi aperti per assorbire il mai visto e poterlo ricordare e poterlo raccontare. Il bello è, a volte, sentire il calore del ritorno – non proprio come se fosse casa ma quasi, un luogo familiare, che conosci e anticipi. Non ricordo quante volte sono stato a Londra, e ogni volta sono contento di tornarci per tanti motivi che non so nemmeno spiegare – semplicemente qualcosa che uno sente dentro, l’aria e i suoni e le facce e la lingua e i cartelloni pubblicitari – quando sono sulla Piccadilly Line so quali sono le fermate e posso descrivere a occhi chiusi il pezzo che da Hounslow West va a Hounslow Central, il lato sinistro andando verso Londra con il parco e i condomini squadrati e le due vie che disegnano un’ostrica o una foglia, e quando sono in Earl’s Court Road so dove andare a mangiare e il Prince of Teck è un po’ come se fosse il bar sotto la chiesa dove andavo a giocare a biliardo, non è il più bello della via ma è diventato un po’ mio. A pensarci mi fa ridere, sono stato più volte in questo pub che al bar della Triennale o in quello che sta in cima al museo di storia naturale nella città nella quale sono nato e cresciuto e ancora oggi vivo; forse è vero che ognuno ha bisogno di qualche punto fermo, e non importa se questo è vicino o lontano, basta poterlo ritrovare.
22/02/2010
Siamo un paese meraviglioso: nel nome del “fare” accettiamo che la Protezione Civile non abbia regole, ma pretendiamo la legalità al festival delle canzonette.
21/02/2010
Non so se per caso o per altro motivo, sull’unico socialcoso che bazzico in questi giorni ho letto una lunga lista di lamentazioni sui “cosiddetti amici” – quelli che non si rivelano tali, quelli che ti abbandonano, quelli che non ti dicono la parola di conforto; quelli che non, insomma. E in tutta questa serie di dita puntate, non uno specchio nel quale guardarsi. Perché gli altri siamo noi, e se ci ritroviamo circondati da quelli che non forse il problema sta nel come le persone le scegliamo, nel come le curiamo, nel come proviamo a mantenerle. Noi, non loro.
|
|
|