Ho la macchina carica di bambini, sei persone corte di nove anni, compagni di classe di mia figlia. Stiamo andando a una festa, io guido in silenzio perché ai bambini non so mai cosa dire, non ci so fare conversazione – e poi loro sono occupati a sfogarsi dopo le otto ore di scuola, salutano i compagni nelle altre macchine della colonna che li sta portando al cinema, ridono, a un incrocio una mi fa una capriola che la catapulta dalla terza alla seconda fila di sedili e io guardo nello specchietto retrovisore e non vedo teste ma due piedi che si muovono come pupazzi dei Muppets. “C’è la musica in questa macchina?” mi chiede il mio vicino e io schiaccio il tasto Pause e la faccio ripartire – “ehi ragazzi, la musica, dai che mette la musica” – attraverso la grande rotonda dove rimaniamo ingorgati dietro a un autobus e li guardo, loro sentono la chitarra ma non capiscono le parole, per fortuna non le ascoltano nemmeno – “no one saw your face no one saw your fear” – li vedo, mi chiedo quanti sono già quello che saranno, là in fondo c’è quella piccolina e bellissima ma con l’espressione della cattiva dei telefilm, e il sudamericano che sarà sempre tradito dai capelli andini, il piccolo Richie Cunningham al quale ritroverò il cappello qualche ora dopo, quella nervosa e piagnucolosa che darà pace ai suoi fantasmi ma sarà sempre troppo tardi. Parcheggiamo, non faccio in tempo a dire “giù tutti” e sono già sciamati veloci come molle trattenute, intravvedo mia figlia nel gruppo, uguale a tutti gli altri, rispondo a un messaggio, entro nel multisala.