Greetings from London ’10 – La misura perfetta
Quando esco dalla fermata della metro di Earl’s Court guardo le ore sul display del telefono. Calcolo quanto sono stato fuori. Quattro ore. Nulla, in fondo – meno di mezza giornata in ufficio. Eppure non importa, non ho la sensazione che il tempo sia stato poco, che ce ne volesse ancora. L’ho capito poco prima, davanti all’abbazia di Westminster, quando mi è sembrato che fare anche un solo passo in più non sarebbe servito a nulla, che avevo avuto già tutto quello che avrei potuto desiderare dalla mia serata. Non ho sentito il bisogno di entrare in un altro pub, di andare a sentire musica, di buttarmi dentro HMV: magari la prossima volta, magari no, non importa. Penso che queste poche ore sono una metafora ben riuscita, spiegano tante cose che già so e che mi dimentico troppo spesso, che non è questione di quanto ma di come, che a volte bastare a se stessi – stare da soli e non sentire né il bisogno né la mancanza di nessuno – non è egoismo ma semplicemente ascoltarsi e ricaricare le proprie pile e coltivarsi per quel che si può e quel che si riesce. Passo l’incrocio con Warwick Road, sono arrivato.