Rifaccio la strada verso l’aeroporto. Il vagone si riempie e si svuota e si riempie, passa dal centro degli uffici e dei negozi e va verso la banlieue dei neri. Spengo il telefono. Ho di fronte un uomo magro, ubriaco e fatto, con una cicatrice sul naso, che si gratta nervosamente le guance tenendo gli occhi chiusi. Mi si siede a fianco una ragazza magnifica, fasciata da un abito di maglina viola, che scende in uno dei pochissimi paesi che attraversiamo che non dia l’idea di essere stato bombardato dal capitalismo moderno.
Drancy. Quando ci sono stato l’ultima volta? Dieci anni fa, con Maria, e la sera siamo scappati per andare a Parigi. A Drancy sento un suono arrivare dal fondo del vagone, alle mie spalle. Una fisarmonica. E’ un suono pulito, chi tiene in braccio lo strumento lo sa usare di sicuro; è anche un suono triste, serio, malinconico, qualcosa che ha dentro una storia, o un sentimento. Muovo gli occhi dalle pagine del libro che tengo in mano al finestrino opaco; là fuori è una giornata stupenda, il cielo azzurro e le grandi nuvole bianche, villette e palazzoni e muri sbrecciati e sfasciacarrozze e un parco con un uomo che fa jogging. Il suono della fisarmonica continua. Sto leggendo la storia della banalità del male, mi torna in mente che da Drancy partivano i vagoni piombati che portavano ebrei e partigiani francesi ai campi di sterminio, e quella musica che sto ascoltando pare arrivare proprio da lì, dal 1941, dall’abisso. E’ strano come le cose si rincorrano, si incastrino, ti prendano in un tuo momento di lieve e coscientemente temporanea serenità – quando hai fatto tutto per non pensare a nulla – e ti graffino dentro senza un senso apparente. Il suonatore di fisarmonica percorre il corridoio, chiede soldi senza insistere, si sposta nel vagone successivo. Guardo i suoi capelli raccolti in una coda di cavallo che arriva a metà delle spalle, penso che dovrei andare dal barbiere, mi chiedo se ha raccolto quanto basta per tirare sera.
Riaccendo il telefono. E’ il primo giorno di aprile del 2010, e tutto e tutti me lo ricordano. Scendo dal treno; adesso inizia la parte dura.