Via da qui
Ci muoviamo lungo la via cercando di rallentare il passo, come a imporci – senza dircelo – un quarto d’ora di calma. Guardiamo la città con occhi diversi, chi trovando i suoi ricordi in mezzo ai negozi etnici e alle panetterie in franchising, chi scoprendo un luogo che solo pochi mesi fa non immaginava che esistesse – che potesse esistere. Sembra una sera estiva, una sera di vacanza nella quale il palmare può essere guardato dieci volte invece che cinquanta o cento, nella quale si può anche stare un po’ zitti o parlare di nulla. Indichiamo insegne, guardiamo vetrine di librerie. Mentre torniamo verso il parcheggio ci fermiamo sul marciapiede opposto a uno slargo della via: di là stanno le panchine, e una manciata di piante, e un gruppo di bambini che alle dieci di sera gioca a rincorrersi e si assiepa intorno a un uomo che porta un cane a passeggio; c’è la ragazzina con gli occhi stirati da orientale, e il bulletto so-tutto-io, e il resto della banda. E’ un paesino di cento metri quadri, chiuso tra palazzi di cinque piani e fermate di metropolitana e locali per gente come noi, che osserviamo la scena sorridendo. Il cane e il suo padrone continuano la passeggiata serale, i bambini sciamano via prima di essere richiamati in casa, noi torniamo verso la macchina, per dieci minuti via da qui, via anche da noi stessi.