Greetings from New York ’10 – Come in uno spot della Nike
Alle tre del pomeriggio entro in MacDougal Street, per andare a sedermi al Caffè Reggio, che è il solo pezzo d’Italia all’estero che mi piace frequentare quando viaggio. Ed è come stare a Milano, o a Londra, o a Madrid, in uno qualsiasi dei posti dove mi sono trovato mentre le televisioni facevano vedere una partita importante, il Village è tutto qui a gridare “iu-es-ei, iu-es-ei” e le ragazze hanno le bandierine, e tutti hanno una birra in mano, e tutti ruggiscono “c’m on”, e tutti trattengono il fiato quando Rooney tira verso la porta americana e tutti spingono la loro squadra quando lancia un contropiede. Rinuncio al Caffè Reggio, mi butto nella bolgia di un paio di locali, a sudare insieme agli indigeni che però ridono e scherzano con quella manciata di pazzi incoscienti che vestono le magliette della nazionale inglese e hanno cantato God Save the Queen, passo più tempo a guardare le facce dei tifosi del Village che i giocatori in campo, mi diverto come un bambino anche quando una ragazza mi ficca inavvertitamente la punta della bandierina nel dorso della mano presa dall’ansia di un cross inglese nell’area di rigore americana, mi pare di stare in uno di quegli spot di Nike o Adidas, quelli che fanno vedere il mondo sorridente e unito dal pallone, dal gioco del pallone, penso che a volte la pubblicità ci azzecca, ordino una pinta di Sam Adams.