Greetings from New York ’10 – I vestiti di Ellis Island
Dicono che cento milioni di americani hanno almeno un progenitore passato qui, da Ellis Island. Mi chiedo come sono, questi cento milioni di persone: come sembrano, che faccia hanno, se appaiono come ci appaiono sempre quando li vediamo camminare davanti al Colosseo o agli Uffizi, inequivocabilmente americani, sovrappeso, col sorriso ottimista, le scarpe grosse. Ci penso, guardando le grandi fotografie che stanno qui, al terzo piano di questa specie di maniero che fungeva da principale porta di ingresso negli Stati Uniti per il resto del mondo che scappava da guerre e povertà e malattie per provare a farsi o rifarsi una vita nella Land of Hope and Glory. Penso che a quei tempi, un secolo fa, tutto – lineamenti, espressioni, vestiti – diceva chi eri e da dove venivi. La ragazza svedese, la domestica rumena, l’adolescente algerino, il soldato greco, il pittore tedesco, Anna Scicchitano con le tre figlie che attraversano l’oceano in terza classe per ricongiungersi con un marito quasi dimenticato e un padre mai conosciuto che lavora in uno sperduto paesino della Pennsylvania. Oggi siamo tutti implacabilmente simili – non uguali, ma simili – noi qui che guardiamo queste foto, diversi solo per il taglio degli occhi e il colore della pelle, e uguali per tutto il resto, le Nike e Gap e la musica indie, e chissà cosa ne pensano Anna e il soldato greco e la domestica rumena, guardando la propria discendenza da dove si trovano adesso, qualunque posto sia.