Di bombe, spari, paure e ricordi
Sono passati molti anni, o forse pochissimi. Non so. Ogni volta ripubblico questa cosa che ho scritto nel 2003. Non per polemica, non ne ho voglia. Solo per ricordare, per ricordarmi che non c’è mai un solo punto di vista, e che la Storia è fatta di storie.
Io non ero a Genova, per il G8. Quel weekend l’ho passato tra autostrade ed aeroporti. Ciò che so e che non so dipende dai mass media, quelli “mainstream”, quelli della cui correttezza tanti dubitano.
Non ho voglia – non sono proprio dell’umore giusto, di questi tempi – di rivangare, di analizzare i pestaggi nelle scuole e gli assalti dei black bloc, i limoni finti del Cavalier Silvio Banana e le zone rosse.
Però, c’è chi lo fa per me. E mi tira fuori ricordi, ed i ricordi – come i sogni – non li puoi controllare: vengono a galla, e ti entrano nello stomaco senza chiedere il permesso.
Mio padre era carabiniere. Lo è ancora, a dire il vero, perchè i carabinieri rimangono tali a vita, e papà è in buona salute, grazie a Dio. Mio padre era carabiniere anche nel Sessantotto, e lo è stato anche in tutti gli anni a seguire. A Milano, un posticino tranquillo, come molti di voi sanno.
Io non so cosa ricordate di quegli anni. Io ero piccolo, ed i miei ricordi sono nitidi nelle sensazioni e confusi nei dettagli. Ma ricordo che mio padre usciva di casa prima dell’alba, e rientrava a notte fonda, e passava giorni interi a fare un servizio chiamato “di ordine pubblico”: in altre parole, decine di ore seduto su un camion, a presidiare piazze e viali nelle quali scorrevano le manifestazioni di quei giorni di cui io so solo per aver letto sui libri, a prendersi anche insulti e sputi.
Ricordo, saranno stati i primi anni Settanta, con quanta fatica mia mamma tentava di dissimulare la tensione quando si faceva sera, e mio padre tardava a rientrare a casa, e mi raccontava storie e mi leggeva fumetti perchè un bambino di sei anni lo devi proteggere, e come fai a spiegargli che le strade della città dove vive sono piene di pistole e spranghe.
Ricordo quella sera d’inverno, avevo dieci anni ed ero seduto sul divano insieme ai miei genitori a guardare la televisione. Ricordo che sullo schermo passò una fotografia, sapete, di quelle in bianco e nero, le fototessera le chiamano, ed era un volto che io non avevo mai visto. Ricordo che mia mamma sbiancò, e balbettò “Ma quello è Antonio” e sì, era proprio il suo cugino Antonio, carabiniere anche lui, saltato su una bomba dopo aver fatto sgombrare la piazza. Antonio, che è rimasto vivo per miracolo, che ha impiegato quindici anni per tornare ad una vita quasi normale, che ha il corpo pieno di schegge troppo piccole per essere estratte, che immagino, provando a sorridere della cosa, che suona quando passa sotto un metal detector e si schermisce dicendo “Sa, sono l’uomo bionico”.
Io so di essere stato fortunato, troppo piccolo sia per il Sessantotto che per il Settantasette, non ho potuto “vivere da protagonista” (ma quanti, poi, lo hanno fatto veramente?) quei giorni, quegli anni. Ma so di aver provato, nel piccolo del mio essere bambino, nel piccolo delle quattro mura della mia casa di periferia di Milano, una sensazione che si chiama paura.
So che se mio padre si fosse trovato su una camionetta, solo ed in mezzo a decine di ragazzi urlanti e mascherati, solo e di fronte ad un ragazzo che sta per tirargli un estintore addosso, so che se mio padre avesse sparato ed avesse colpito quel ragazzo, io sarei stato con lui. Vaffanculo, Carlo Giuliani, piango la tua morte, piango che tu non possa girare mano nella mano con la tua fidanzata, piango l’osceno dolore di tua madre e tuo padre, sputo su chi ha creato uno stato di guerra dove guerra non doveva esserci, ma io sarei stato con mio papà.