< City Lights. Kerouac Street, San Francisco.
Siediti e leggi un libro

     

Home
Dichiarazione d'intenti
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

Talk to me: e-mail

  • Blogroll

  • Download


    "Greetings from"

    NEW!
    Scarica "My Own Private Milano"


    "On The Blog"

    "5 birilli"

    "Post sotto l'albero 2003"

    "Post sotto l'albero 2004"

    "Post sotto l'albero 2005"

    "Post sotto l'albero 2006"

    "Post sotto l'albero 2007"

    "Post sotto l'albero 2008"

    "Post sotto l'albero 2009"

    "Post sotto l'albero 2010"


    scarica Acrobat Reader

    NEW: versioni ebook e mobile!
    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione mobi"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione mobi"

    Un po' di Copyright Creative Commons License
    Scritti sotto tutela dalla Creative Commons License.

  • Archives:
  • Ultimi Post

  • Madeleine
  • Scommesse, vent’anni dopo
  • “State andando in un bel posto, credimi”
  • Like father like son
  • A ricevimento fattura
  • Gentilezza
  • Il giusto, il nobile, l’utile
  • Mi chiedevo
  • Sapone
  • Di isole e futuro
  • July 2010
    M T W T F S S
     1234
    567891011
    12131415161718
    19202122232425
    262728293031  

     

    Powered by

  • Meta:
  • concept by
    luca-vs-webdesign

     

    20/07/2010

    Di bombe, spari, paure e ricordi

    Filed under: — JE6 @ 11:39

    Sono passati molti anni, o forse pochissimi. Non so. Ogni volta ripubblico questa cosa che ho scritto nel 2003. Non per polemica, non ne ho voglia. Solo per ricordare, per ricordarmi che non c’è mai un solo punto di vista, e che la Storia è fatta di storie.

    Io non ero a Genova, per il G8. Quel weekend l’ho passato tra autostrade ed aeroporti. Ciò che so e che non so dipende dai mass media, quelli “mainstream”, quelli della cui correttezza tanti dubitano.
    Non ho voglia – non sono proprio dell’umore giusto, di questi tempi – di rivangare, di analizzare i pestaggi nelle scuole e gli assalti dei black bloc, i limoni finti del Cavalier Silvio Banana e le zone rosse.
    Però, c’è chi lo fa per me. E mi tira fuori ricordi, ed i ricordi – come i sogni – non li puoi controllare: vengono a galla, e ti entrano nello stomaco senza chiedere il permesso.
    Mio padre era carabiniere. Lo è ancora, a dire il vero, perchè i carabinieri rimangono tali a vita, e papà è in buona salute, grazie a Dio. Mio padre era carabiniere anche nel Sessantotto, e lo è stato anche in tutti gli anni a seguire. A Milano, un posticino tranquillo, come molti di voi sanno.
    Io non so cosa ricordate di quegli anni. Io ero piccolo, ed i miei ricordi sono nitidi nelle sensazioni e confusi nei dettagli. Ma ricordo che mio padre usciva di casa prima dell’alba, e rientrava a notte fonda, e passava giorni interi a fare un servizio chiamato “di ordine pubblico”: in altre parole, decine di ore seduto su un camion, a presidiare piazze e viali nelle quali scorrevano le manifestazioni di quei giorni di cui io so solo per aver letto sui libri, a prendersi anche insulti e sputi.
    Ricordo, saranno stati i primi anni Settanta, con quanta fatica mia mamma tentava di dissimulare la tensione quando si faceva sera, e mio padre tardava a rientrare a casa, e mi raccontava storie e mi leggeva fumetti perchè un bambino di sei anni lo devi proteggere, e come fai a spiegargli che le strade della città dove vive sono piene di pistole e spranghe.
    Ricordo quella sera d’inverno, avevo dieci anni ed ero seduto sul divano insieme ai miei genitori a guardare la televisione. Ricordo che sullo schermo passò una fotografia, sapete, di quelle in bianco e nero, le fototessera le chiamano, ed era un volto che io non avevo mai visto. Ricordo che mia mamma sbiancò, e balbettò “Ma quello è Antonio” e sì, era proprio il suo cugino Antonio, carabiniere anche lui, saltato su una bomba dopo aver fatto sgombrare la piazza. Antonio, che è rimasto vivo per miracolo, che ha impiegato quindici anni per tornare ad una vita quasi normale, che ha il corpo pieno di schegge troppo piccole per essere estratte, che immagino, provando a sorridere della cosa, che suona quando passa sotto un metal detector e si schermisce dicendo “Sa, sono l’uomo bionico”.
    Io so di essere stato fortunato, troppo piccolo sia per il Sessantotto che per il Settantasette, non ho potuto “vivere da protagonista” (ma quanti, poi, lo hanno fatto veramente?) quei giorni, quegli anni. Ma so di aver provato, nel piccolo del mio essere bambino, nel piccolo delle quattro mura della mia casa di periferia di Milano, una sensazione che si chiama paura.
    So che se mio padre si fosse trovato su una camionetta, solo ed in mezzo a decine di ragazzi urlanti e mascherati, solo e di fronte ad un ragazzo che sta per tirargli un estintore addosso, so che se mio padre avesse sparato ed avesse colpito quel ragazzo, io sarei stato con lui. Vaffanculo, Carlo Giuliani, piango la tua morte, piango che tu non possa girare mano nella mano con la tua fidanzata, piango l’osceno dolore di tua madre e tuo padre, sputo su chi ha creato uno stato di guerra dove guerra non doveva esserci, ma io sarei stato con mio papà.

    Il giorno dopo MOPM

    Filed under: — JE6 @ 09:00

    Ieri tante persone hanno scritto – in pubblico e in privato – per dire che My Own Private Milano è una bella cosa. Anch’io penso che lo sia. Un po’ per i motivi a tutti evidenti: belle fotografie, bei racconti, e una splendida veste grafica. Un po’ per motivi che invece sono visibili solo a chi lo ha fatto: è una cosa seria fatta per gioco e un gioco fatto seriamente. Ed è – ma questa è una cosa che a parole è difficile spiegare – una manifestazione di fiducia tra persone che spesso non si conoscono nemmeno, se non attraverso quel che si scrive per blog e social network. Non voglio dare nessun particolare significato a una cosa piccola quale MOPM è. Non ci voglio costruire sopra alcun massimo sistema. Dico solo che ogni tanto capita che uno butta lì un’idea con la quale altri – più bravi e scafati – sarebbero anche capaci di fare quattro soldi e trova chi dice “dai, ci sto” senza alcun retropensiero. E il risultato è quello, il rispetto di un patto non scritto, dove i meriti si suddividono e ci si sente parte di qualcosa più grande e bello e nobile della somma delle nostre pochezze.