In ufficio ho cinque persone che non erano nate quando la stazione di Bologna saltò in aria. Alcune di loro ne sanno qualcosa: di Bologna, di Ustica, di Moro, dell’Italicus, di Piazza Fontana. Hanno letto, hanno guardato “Blu notte”. Forse hanno persino partecipato a qualcuna delle manifestazioni pro forma che i collettivi dei licei di tanto in tanto organizzano, facendo precedere il corteo dallo striscione “Non dimentichiamo”. Per quanto riguarda i fatti, ne sanno probabilmente quanto ne so io – e cioè abbastanza poco, perché durante tutti questi anni la sedimentazione di verità, falsità e verosimiglianze ha costruito un agglomerato laocoontico che nessuno riesce a districare. Ma il punto è un altro, almeno oggi, almeno per me. Il punto è che dicono “ricordiamo” ma non hanno e non possono avere memoria. Il punto è che non stavano a Milano quando volavano le spranghe e scoppiavano le bombe, quando le scuole – come l’Omni di Lampugnano – venivano presidiate ogni giorno che Dio mandava in terra dalla Celere, quando chi – come me – aveva un padre in divisa non era del tutto sicuro di rivedere il genitore al tavolo della cena. Il punto è che hanno visto le strisce di cocaina nei cessi dei locali notturni, ma non conoscono i fiori di siringhe sporche di sangue conficcate negli alberi dei parchi cittadini e i tossici sconciati dall’eroina. Dicono in buona fede di ricordare, così come l’ho detto io dopo essere uscito da Dachau e da Mauthausen. Come tutti, nel giro implacabile delle generazioni, ricordano senza memoria, e quindi senza cuore. Non ne hanno colpa, ovviamente. Ma è così che i ricordi si spengono.