Secondo Squadrone Carri
Era il 26 ottobre di 20 anni fa, avevamo atteso quel giorno per dodici mesi e finalmente era arrivato. Avevamo preparato le nostre borse, e svuotato gli armadietti, e attaccato i lucchetti là al ponte sul Passirio, e cenato per l’ultima volta da Christof, Linda e Ulrike e fatto il pieno o comprato il biglietto del treno – un biglietto di sola andata, che serviva a tornare. A casa. Ci lasciammo il grande piazzale alle spalle, e non ci girammo, o forse qualcuno lo fece per gridare un insulto, una bestemmia pensando alle notti passate nel freddo dell’Alto Adige camminando tra il deposito dei carri armati e il centro ippico. Quasi tutti cercammo una cabina del telefono e buttammo giù una manciata di gettoni, chiamando fidanzate o genitori: ho finito, sono fuori. E tutti sentimmo dall’altra parte del filo come un sospiro di sfinito stupore, io non capisco perché sei ancora lì, ma perché non torni a casa stasera che qui ti aspettano, che io ti aspetto, ma non hai voglia di vedermi – e tutti rispondemmo la stessa cosa, perché tutti avevamo speso qualche venti o trentamila lire per una notte in un garni o una pensione a due stelle, un’altra notte lì nella valle mentre a casa c’era gente che ci aspettava, gente che aveva voglia di vederci e portarci fuori a bere, sì che ho voglia di vederti, ma ci fanno uscire in due turni, all’altra metà tocca domani, cerca di capire, ti voglio bene, adesso scusa, vado, ho finito i gettoni e mi stanno aspettando.