La ciliegina
Ci è voluto un po’ perché la stanchezza cominciasse a lasciarmi. Ho dovuto sedermi, appoggiare la borsa sul sedile posteriore, baciarti sulla guancia, dirti “abbastanza bene” quando mi hai chiesto “come stai”, socchiudere gli occhi mentre attraversavamo la città e sorridere piano mentre sfilavamo in autostrada, come un serbatoio che si riempie goccia dopo goccia. Quando hai imboccato la strada provinciale mi sono guardata intorno, ascoltando la tua voce che si faceva forza di essere più allegra del solito raccontarmi delle cose che ci stavano accanto, perché avevi capito che avevo bisogno di silenzio, e di qualcosa di bello che lo riempisse, e in quel momento di bello potevi esserci solo tu e il profilo verde della collina sulla quale stavamo salendo. Quando mi hai mostrato quella vecchia rocca ho avuto la tentazione di dirti “fermiamoci qui, portami a bere un caffé, a fare quattro passi, fermiamoci qui e basta”, ma poi non l’ho fatto – eppure so che tu mi avresti dato retta, che lo avresti fatto, che lo avresti fatto per me. Ma sono contenta lo stesso, quel caffé sarebbe stato soltanto la ciliegina sulla torta, una torta che ci siamo comprati senza dircelo, come facciamo sempre; allora ho guardato la tua mano, che non poteva lasciare la leva del cambio, l’ho guardata e ho sorriso, l’ho sfiorata col pensiero, senza dirtelo. Poi tu hai detto una battuta, una scemenza qualsiasi, io ho riso, “sei uno scemo” ti ho detto e tu mi hai risposto “per servirla, signora” e, non importa per quanto, sono stata bene.