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07/03/2011
Stavo pensando.
Eh. A cosa?
A una cosa che mi hanno insegnato tanti anni fa, quando ho iniziato a parlare in pubblico per lavoro.
Ah.
Sì, che devi scegliere una o due persone tra quelle che ti stanno davanti, e parlare a loro come se non ci fosse nessun altro, non importa se ne hai di fronte cento o mille.
Io se facessi così, mi metterei a ridere: scovo sempre quello che si sta scaccolando mentre parlo. Io penso alle parole, è l’unico modo. A me che parlo. Però il tuo metodo è professionale e funziona.
Sì, funziona. A volte mi chiedo se quelle due persone se ne rendono conto che stai parlando a loro.
Se le scegli bene, penso di sì. Glielo leggi in faccia, di solito.
[Che poi, leggere in pubblico – specie le tue cose – non è parlare in pubblico. E’ un’altra cosa, anche se non ho ancora capito bene cosa. Ma questo è un altro discorso]
05/03/2011
Non sono mai stato un pendolare nel senso comunemente dato al termine. Anche se, pensandoci, a mio modo lo sono stato, non avendo mai lavorato a Milano prima di quest’anno: Bernate sopra Ticino, Sesto San Giovanni, Vimodrone, Arese, Corsico – impiegando per anni a raggiungere l’ufficio lo stesso tempo che mi sarebbe occorso per arrivare a Bellinzona o Torino. Ma non ho esperienza di treni e ritardi e corse per non perdere coincidenze e impianti di riscaldamento non funzionanti e tutto il racconto tristemente epico che un paio di volte all’anno posso leggere nei reportage della cronaca locale di Repubblica. Così oggi, che sono su un regionale tra Bologna e Falconara, guardo stazioni solitarie e innevate, ho tempo di fissare muri che abbisognerebbero di una mano di colore, leggo striscioni che riportano a feste in onore dei ferrovieri del compartimento di Bologna del 1988, osservo vagoni raminghi su binari morti, ascolto studenti che tornano a casa per il weekend – oh ciao anche tu qui, che fai, dormo, lo vedo, e tu, provo a comporre – non ho fretta e ho tempo di vedere le cose che per me hanno il fascino di un’indolente mattina di sabato, tra ragazze senza mento che dormono con la bocca aperta, capannoni di varie metrature affittabili telefonare ore ufficio, betoniere e cascine, prima di tornare sul FrecciaRossa, o sul 24 Duomo-Vigentino, capolinea via Dogana.
03/03/2011
[Dialoghi del paese reale impegnato a creare prodotto interno lordo]
Ma se questo database lo chiamassimo FareFuturo? Così sarebbe corrotto fin dall’inizio.
No, per piacere, con quel nome i dati se ne vanno subito.
02/03/2011
Gli studenti riuniti sugli scalini per ascoltare le raccomandazioni del professore, le standiste col vestito corto e scollato sotto il cappotto, i turisti al bancomat, John Doe all’entrata del pub, il manager al telefono, i tassisti che accelerano, la famiglia che controlla la cartina prima di entrare nella stazione della metro, i giornali gratuiti, la cucina del ristorante indonesiano, il movimento continuo come se il semaforo fosse sempre verde, e il vento freddo, quello che cammini e non pensi a nulla, solo a sentire il gelo sulla faccia e gli occhi che lacrimano.
01/03/2011
Scendo da Charing Cross Road fino a Trafalgar Square, il vento fa arrivare microscopici frammenti di acqua dalle due fontane illuminate, attraverso la strada, prendo Whitehall, riconosco pub dove sono stato a mangiare anni fa – il Silver Cross e il Clarence – passo davanti al militare di guardia davanti alle scuderie, rigido come una statua, come la spada che tiene ferma e dritta davanti al naso, mi fermo a guardare la ruota panoramica, la London Eye, dando le spalle a Downing Street, mi avvicino a Buckingham Palace e da qui in poi siamo tutti turisti, tutti che camminiamo con il naso rivolto al cielo, verso l’orologio del Big Ben, con le macchine fotografiche in mano, dai sorridi, ma come faccio, muoviti che si congela con ‘sto vento, e i cavalletti per non avere le immagini mosse, se arriviamo dall’altra parte del ponte la vista è migliore. Cammino lentamente nonostante il freddo, guardo le cabine del telefono, rosse e così vicine l’una all’altra e mi chiedo se mi sia mai capitato di vederle usare, le lasciano lì per noi, così le possiamo fotografare e far vedere agli amici e ai colleghi, cammino lentamente e mi prendo lo spazio di chi ciondola senza fretta né direzione. Vengo superato da una ragazza, il giubbotto rosso, i jeans stretti ma non troppo, le scarpe eleganti ma comode, che va di fretta, ha tre sacchetti della spesa che le occupano le mani senza guanti, ma dove si fa la spesa a Trafalgar Square mi chiedo, dove compri quella frutta e quella verdura che la ragazza sta portando a casa, lei va di fretta perché ha una vita e una cena da preparare, va di fretta e la perdo di vista quasi subito, vai a casa ragazza con i sacchetti della spesa, fa freddo, e tu hai da fare.
Arrivo a Charing Cross senza un particolare motivo – ogni tanto ci vengo, mi piace l’ambiente, la gente, le vie laterali piene di pub storici che portano nel cuore di Covent Garden. Mi fermo di fronte a un negozio che ha la più bella insegna che io conosca – Let’s fill this town with artists, dice. Me lo ricordo, lo avevo notato l’anno scorso o due anni fa. Decido di entrare, mi perdo a guardare i gessi, i carboncini, le stilografiche per il tratto da artista, dei set straordinari di drawing inks, e decine e decine di blocchi per disegnare, di quelli che tocchi la carta con un dito e capisci che non si tratta di roba comune, che quasi dispiace usarli, ne senti i pori e ne vedi il colore diverso dal solito. Due ragazzi comprano tele da pittore, io prendo un piccolo regalo. Esco, mi piacerebbe restare ancora.
Nelle fiere c’è sempre un momento che assomiglia al tana libera tutti. Di solito arriva a metà del pomeriggio, quando pare di vedere lo striscione dell’arrivo avvicinarsi; è un momento organizzato, programmato, già dal mattino alcuni stand hanno esposto il cartello – alle 4 aperitivo, vieni a bere un bicchiere di vino o una birra con noi. Lo si fa per “generare traffico”, come si dice nella nostra neolingua, per attirare visitatori e carpirgli un biglietto da visita e chissà mai che non ci sia qualche contatto buono, che ci farà un ordine dandoci l’illusione che questi giorni che passiamo qui dentro non siano del tutto buttati via. Eppure, spesso sono momenti che sfuggono di mano a chi li ha pianificati, la gente arriva, prende il suo bicchiere o la sua bottiglia e no, non se ne va: resta, ma con l’aria indolente di chi dice beh dai cazzo, facciamo dieci minuti di pausa, siamo tutti entrati qui dentro sei o sette ore fa e non abbiamo fatto altro che parlare e provare a vendere e provare a non comprare e leggere fra le righe e what’s your business, facciamo che adesso la smettiamo, almeno per un po’, e allora si fanno due risate normali, si parla di calcio e di vacanze, no ma hai visto quel telefono fantastico, chissà di che anno è, certo che l’ho visto, ho un’amica che se fosse in vendita glielo comprerei adesso, qualcuno organizza la cena e qualcuno dice no grazie, ho ancora da lavorare e invece non è vero, vuole solo stare per conto suo e andare a fissare la silhouette blu elettrica della ruota panoramica, è come se tutti tirassero un po’ il fiato, anche quelli che volevano generare traffico, vuoi un altro bicchiere? quasi quasi, è che sono a stomaco vuoto, ho saltato il pranzo, poi c’è sempre uno che guarda l’orologio e si ricorda che è lì a lavorare, e chiede il biglietto da visita, così la prossima settimana ti mando un po’ di documentazione.
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