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30/04/2011
Io non so cosa significhi per una donna andare dal parrucchiere, mettersi in mano a qualcuno che ti prende e ti cambia davanti ai tuoi occhi.
So cosa significa per me quella mezz’ora, seduto sulla stessa poltrona di pelle rossa e metallo laccato bianco sulla quale stavo – diosanto – quarant’anni fa. E’ il momento nel quale sento il rasoio, la macchinetta con i suoi denti che si muovono veloci, la sento sulla pelle, che taglia, come se scoprisse e liberasse, come se togliesse un peso, se portasse via delle scorie. A volte leggo. A volte mi fisso nello specchio, penso ecco, un paio di millimetri ancora ed è perfetto – il che è un po’ ridicolo, non per la differenza che possono fare due millimetri ma perché mi rendo conto che sto pensando “così sto bene”, neanche fossi bello, neanche fossi un attore del cinema, quell’immobilità forzata mi obbliga a vedere tutti i difetti, a fissarli, a imprimermeli nuovamente nella memoria, ma al tempo stesso tutto è relativo e allora sì, nel perimetro ristretto delle possibilità datemi da mia madre e mio padre “così sto bene”. A volte chiudo gli occhi, il mio barbiere lo sa che non dormo, ogni tanto scambiamo quattro parole ma a volte nemmeno una, e ogni volta quando ha finito mi chiede se voglio una colonia, o il gel, e io dico no, e lui “Ecco, siamo a posto”, io dico grazie e lui “e di cosa”, e io a volte vorrei spiegargli che quando lui appoggia il rasoio non mi sta solo tagliando i capelli. Vorrei, ma chissà, forse lo sa.
29/04/2011
Era una domenica di primavera, faceva caldo e avevo una macchina a noleggio già pagata. Così mi svegliai presto – ancor prima del solito – accesi il motore, lasciai Atlanta e mi misi in autostrada. Avevo in mente di andare a Memphis, ma feci quattro conti – la distanza, i limiti di velocità americani, la necessità di essere in ufficio la mattina dopo – e cambiai idea, invece di andare a ovest mi mossi verso nord. Smyrna, Marietta, Cartersville, Calhoun. Da qualche parte trovai il grande cartello verde del cambio di fuso orario, che è una cosa che fa stranezza perché è come poterla toccare quella linea, fai un passo e hop, ti ritrovi un’ora indietro e pensi a com’è la vita di chi quella linea la passa due volte al giorno, da qualche altra parte mi fermai in un piccolo e sperduto cimitero di campagna, e poi senza capire come mi ritrovai in riva al Tennessee River, ma lo realizzai soltanto dopo, ché in quel punto il fiume era largo, tanto largo che pareva un lago e io lo scambiai per tale – o forse è solo che me lo ricordo così oggi che è passato un sacco di tempo. E sempre senza sapere bene come, perché era una di quelle giornate che l’unica decisione che prendi è quella di metterti in viaggio, arrivai a Chattanooga, Tennessee. Quella del Chattanooga Choo-Choo, che vidi, e lì di fronte stava la più grande bottiglieria che io avessi mai visto, e non so cosa mi stupì di più, se toccare con mano la leggenda di quel treno messo in musica da Glenn Miller o quella degli americani che entravano in un negozio e ne uscivano con una grossa busta di carta piena di alcoolici. Camminavo, e faceva caldo, e a un certo punto vidi una folla che usciva da un edificio, che riempiva la strada, erano tutti vestiti bene, erano tutti di colore, cioè il colore era uno solo, il nero nelle sue mille sfumature, ridevano e scherzavano, c’erano ragazzi e c’erano le loro famiglie, madri e padri e sorelle e fratelli e nonni, proprio come quelli che qualche anno dopo mi capitò di vedere a New Orleans entrare allo stadio vestiti con i colori della loro università, c’erano facce orgogliose e facce imbarazzate – penso che fosse un giorno di esami, di lauree, non lo so, non mi fermai a chiedere, so solo che l’altro giorno mi è venuta in mente questa immagine, quella dei ragazzi della University of Tennessee at Chattanooga e delle loro famiglie, e ho pensato che non ho mai visto, qualunque fosse il motivo che le aveva portate lì, persone così felici – ripresi la mia macchina a noleggio, ripassai la linea del cambiamento del fuso orario e no, non mi dispiacque così tanto il non essere andato a Memphis.
28/04/2011
Io lo adoro, José Mourinho, perché guardandolo – lui, come il PresDelCons, come certa gente che vedevo ogni giorno al bar biliardo -, guardando la sua prodigiosa incapacità di saper vincere e la sua prodigiosa incapacità di saper perdere provo questo zuccheroso gusto di osservarne le sconfitte, e sono contento.
26/04/2011
L’uomo si accomoda sulla poltrona, riservandomi il sorriso innocuo delle relazioni professionali che hanno la fortuna di non incagliarsi sulle antipatie. Da quanto tempo non ci vediamo, mi chiede. Un anno circa, rispondo io porgendogli il nuovo biglietto da visita; avrei detto molto di più, pensa lui a voce alta – poi mi guarda e mi chiede tu il mio, e accenna al santino di carta colorata, ce l’hai vero? Sfoglia un raccoglitore mentre scambiamo i primi convenevoli, osservo dove infila il cartoncino che gli ho appena porto, vedo che – non so per quale motivo – ha saltato un turno, un’azienda dove ho passato quasi due anni di vita, e in effetti fa un po’ impressione stare dall’altra parte della barricata in questo gioco di celo, manca, celo, celo, manca. Un’ora dopo, uscendo dal portone di questo palazzo nobile del centro milanese penso che le cose di lavoro sono tutto sommato semplici nella loro difficoltà, se hai bisogno alzi il telefono o scrivi due righe, se qualcuno ha bisogno alza il telefono o ti scrive due righe – come va, hai mezz’ora di tempo nei prossimi giorni – puoi stare un anno senza sentire una persona senza che questo sia un problema, siamo tutti qui on demand: hai bisogno? Eccomi, aspetta un momento che faccio partire il tassametro.
23/04/2011
Io ogni tanto me le figuro le riunioni di redazione del Corriere, ed è una visione che mi rimette in pace col mondo, perché mi vedo uno di questi circoli come il Drones frequentato dal Bertie Wooster di P. G. Wodehouse, con le poltrone in pelle e i camerieri che scivolano silenziosi portando bicchierini di whisky su vassoi d’argento, e attempati editorialisti che si aggiustano il monocolo ascoltando il direttore il quale si rivolge loro con il savoir faire che gli è proprio, ricordando che devono scrivere il termine “liberale” non meno di due volte a settimana cadauno, come da contratto – ci vediamo poi tutti all’ippodromo amici miei, buon lavoro.
22/04/2011
A volte uno farebbe miglior figura a scrivere “Tizio mi sta sui coglioni e gli voglio dar fastidio per quanto mi è possibile“, una riga e via. Invece, siccome un articolo da una riga non è cosa né buona né giusta, butta giù più di seicento parole e quattromila caratteri per esprimere quel concetto – quando si dice la gente che non ha coscienza ambientale.
[Magari l’articolo è solo su web, eh, ma facciamo che il concetto è quello]
Sono seduto sul tram. Accendo il Kindle, leggo un pezzo che DeLillo ha scritto in memoria di David Foster Wallace. Quando usciamo da via Giardino per entrare in via Mazzini con la coda dell’occhio vedo la donna che mi siede a fianco fare un velocissimo gesto toccandosi prima la fronte, poi il petto. Alzo la testa, vedo là, sulla destra, la chiesa di San Satiro, capisco che la donna – una sudamericana, credo, i lineamenti sembrano quelli – ha fatto il segno della croce. Mi viene in mente mio padre, che ogni volta che si mette al volante per un viaggio di qualche lunghezza, fa lo stesso gesto, in silenzio. Conosco molte persone che si metterebbero a ridere, guardandolo e guardando la donna che mi siede a fianco; io lei non la conosco, ma conosco mio padre, so che il suo è un gesto antichissimo, ci sta dentro il bambino che è stato, che quando usciva dal paese per andare a fare il pastore all’età di dieci anni affrontava un mondo immenso e sconosciuto e spesso pauroso, e raccomandarsi a qualcosa o qualcuno, magari al Dio della Messa grande della domenica era naturale e sensato. So che non crede che Gesù Cristo lo stia veramente guardando mentre affronta la rotonda che dallo svincolo di Piacenza Nord porta verso il Po per evitare che un furgone guidato da un ubriaco possa ammazzarlo sventrandogli la macchina, so che il suo è un gesto piccolo che vuol semplicemente dire “so di essere piccolo”, so che molti di quelli che lo prenderebbero per un vecchio credulone e bigotto poi non fanno una piega guardando i campioni del calcio che escono dagli spogliatoi, toccano con un dito l’erba e con quel dito fanno lo stesso gesto che fa questa donna passando davanti a una chiesa medievale, che fa mio padre quando parte per un viaggio, lo so, ma a che serve.
20/04/2011
[segue]
I due uomini entrano nel bar, quello più giovane apre la porta a quello più anziano che poi si dirige sicuro verso un tavolo d’angolo con il passo di chi ha consuetudine con il luogo nel quale si trova. Si siedono, ordinano – ormai è tardi, chiedono una birra, ma lo fanno giusto per passare il tempo, per avere un motivo per stare seduti a quel tavolo. Per un paio di minuti parlano del tempo, poi l’uomo più anziano chiede all’uomo più giovane che lavoro fa e sembra sinceramente interessato alla risposta, all’autoritratto che ascolta. Passano una ventina di minuti, durante una pausa di silenzio l’uomo più anziano guarda negli occhi quello più giovane e gli dice lei non mi chiede nulla, chi sono, cosa faccio; l’uomo più giovane ha un attimo di esitazione, poi sembra prendere coraggio e risponde penso di sapere abbastanza di lei, se le chiedessi di più sarei indiscreto e questa è la prima volta che ci incontriamo. L’uomo più anziano sorride, finisce la sua birra e porta la mano alla tasca interna della giacca per estrarre il portafogli e pagare il conto. L’uomo più giovane guarda dietro le spalle dell’uomo più anziano, oltre la vetrina del bar, fissa il grande portone di vetro del palazzo di otto piani dal quale poco prima entrambi sono entrati e usciti e dice a voce bassa è una donna fortunata, l’uomo più anziano gli chiede cosa glielo faccia pensare e l’uomo più giovane risponde ha lei qui, e lei ha la voce di una persona della quale ci si può fidare. I due uomini escono dal bar, l’uomo più anziano chiede all’uomo più giovane se vuole un passaggio da qualche parte, quello risponde di no accompagnando le parole con un gesto lento della testa, faccio due passi, mi piace l’aria di quest’ora della notte; l’uomo più anziano dice allora arrivederci, è stato un piacere, l’uomo più giovane risponde anche per me, più di quanto lei possa pensare, allunga la mano, la stringe senza sorridere e si incammina.
19/04/2011
C’è questo gioco, questo tipo di biliardo. Si chiama snooker, se tra i mille canali che il vostro decoder vi mette a disposizione c’è anche Eurosport allora sapete cos’è. Io passo delle ore a guardarlo – d’altra parte c’è chi si stende sul divano a vedere Glee e chi lo fa per guardare Santoro e Travaglio, quindi c’è chi sta messo peggio. Mi piace, tanto. Non è solo l’estetica di questa enorme prateria verde sopra la quale vedi quindici punti rossi e altri sei di altrettanti colori diversi, e la mano che si appoggia sul tappeto e si piega e si adatta fino a quando la stecca non scorre liscia e dritta nell’incavo tra il pollice e l’indice e le altre tre dita disegnano un ventaglio come quelli che ti vendono sulla scalinata dei giardini del palazzo reale di Madrid. No, non è solo quello. Mi piace la filosofia del gioco, la lenta e paziente e noiosa edificazione del finale – imbucare una biglia rossa e poi una colorata, una rossa e una colorata, per quindici volte, fino a quando ti rimangono le sei colorate che vanno imbucate secondo una rigida regola di successione dei colori, mi piace questa metafora della costruzione delle fondamenta, lunga e faticosa e ogni tanto premiata dalla soddisfazione di un’imbucata particolarmente difficile – come se fosse, chessò, la laurea. Se sbagli, se manchi una buca, ti devi fermare; vai a sederti, e aspetti, come quando a Monopoli devi andare in prigione, e guardando il tavolo sembra di vedere quelle case di certi paesi del Sud, lasciate a metà perché sono finiti i soldi e chissà se verranno mai completate. Lo snooker funziona che fino a quando un giocatore imbuca senza errori, l’altro sta a guardare, e può persino capitare che uno non giochi proprio se l’altro infila una serie perfetta: anche questo mi piace, mi piace questa metafora della vita, quest’alternanza di ciò che fai tu e ciò che fanno gli altri in una specie di celebrazione dell’impotenza, o quantomeno dei limiti di ciascuno. Ed è vero che molto sta a come tu sai giocare le occasioni che ti si propongono, e che molto sta a come tu vivi e accetti le cose che succedono; però le telecamere indugiano sui volti di quelli che in quel momento sono i perdenti, costretti all’immobilità sulla loro sedia d’angolo, con il bicchiere di acqua ghiacciata sul tavolino dal quale bevono anche se non hanno sete: non importa cosa traspare da quei volti, alcuni sono sereni, altri impassibili, altri furenti, altri tristi, altri increduli – loro semplicemente non possono fare nulla, quel che succede sul tavolo, la loro stessa sorte non dipende da loro ma da un’altra persona, e quante volte questo succede nella vita lontana da quel tavolo, aspetti e aspetti e ti prepari alla tua occasione, per poi capire che i risultati non dipendono da te. In questi giorni si sta disputando il campionato del mondo, lo giocano al Crucible di Sheffield e anche quella sarebbe una gran storia da raccontare, ma per fortuna ci ha pensato Richler e vi basta spendere una decina di Euro per leggerla; volevo dirvelo, se avete Eurosport fermatevi quando vedete quel rettangolo verde con ventuno biglie appoggiate sopra, e due uomini che ci girano intorno – che quei due lì siete voi, siamo noi.
17/04/2011
Ci sono libri (e dischi, e film*) che hanno una loro stagione – come la frutta, la verdura e il linoleum. Quando passa quel tempo, sembrano irrimediabilmente vecchi: non antichi: vecchi, sorpassati dalle cose e dal mondo. Qualche settimana fa ho finito le “Lezioni americane” di Calvino; lo avevo iniziato due o tre volte, senza mai andare oltre le prime venti o trenta pagine. Ma questa volta l’ho portato in fondo. Una volta terminatolo, pur riconoscendone tutto il bello e il buono (come fai a non amare uno che scrive “la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca“) mi è rimasta questa sensazione di un’opera scritta a metà degli anni Ottanta pensando al millennio che arrivava, e fregata dal futuro: perché oggi che ci siamo dentro in pieno a quel millennio, le idee, le “proposte” di Calvino sembrano tanto sagge quanto rese polverose dal tempo sciatto e svagato (come scriveva Roscioni nella prefazione alla prima edizione) che avrebbero invece voluto arricchire e migliorare. Nessuno ha la sfera di cristallo, e a uno scrittore non si può imputare l’aver osato guardare dove non arriva la vista (“l’eccessiva ambizione dei propositi può essere rimproverabile in molti campi d’attività, non in letteratura“); è che a volte uno gira l’ultima pagina, e ciò che gli resta è una specie di amaro in bocca, quello che viene notando che i tempi non sono stati all’altezza delle speranze che li hanno preceduti.
* Ci sono tempi assoluti, generali; e tempi personali. Così capita che una sera ti trovi a guardare un film che ti è stato presentato – e con ogni ragione – come bello e angosciante, e arrivi alla fine ricordandoti una sola scena, quella della bara che viene chiusa sul volto sereno del ragazzo morto in mare, perché tutto il resto ti è scivolato addosso senza lasciare traccia. Per un po’ te ne chiedi il motivo, poi da qualche parte inizia una partita, e schiacci il tasto del telecomando.
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