Verso nord, passando la linea del fuso
Era una domenica di primavera, faceva caldo e avevo una macchina a noleggio già pagata. Così mi svegliai presto – ancor prima del solito – accesi il motore, lasciai Atlanta e mi misi in autostrada. Avevo in mente di andare a Memphis, ma feci quattro conti – la distanza, i limiti di velocità americani, la necessità di essere in ufficio la mattina dopo – e cambiai idea, invece di andare a ovest mi mossi verso nord. Smyrna, Marietta, Cartersville, Calhoun. Da qualche parte trovai il grande cartello verde del cambio di fuso orario, che è una cosa che fa stranezza perché è come poterla toccare quella linea, fai un passo e hop, ti ritrovi un’ora indietro e pensi a com’è la vita di chi quella linea la passa due volte al giorno, da qualche altra parte mi fermai in un piccolo e sperduto cimitero di campagna, e poi senza capire come mi ritrovai in riva al Tennessee River, ma lo realizzai soltanto dopo, ché in quel punto il fiume era largo, tanto largo che pareva un lago e io lo scambiai per tale – o forse è solo che me lo ricordo così oggi che è passato un sacco di tempo. E sempre senza sapere bene come, perché era una di quelle giornate che l’unica decisione che prendi è quella di metterti in viaggio, arrivai a Chattanooga, Tennessee. Quella del Chattanooga Choo-Choo, che vidi, e lì di fronte stava la più grande bottiglieria che io avessi mai visto, e non so cosa mi stupì di più, se toccare con mano la leggenda di quel treno messo in musica da Glenn Miller o quella degli americani che entravano in un negozio e ne uscivano con una grossa busta di carta piena di alcoolici. Camminavo, e faceva caldo, e a un certo punto vidi una folla che usciva da un edificio, che riempiva la strada, erano tutti vestiti bene, erano tutti di colore, cioè il colore era uno solo, il nero nelle sue mille sfumature, ridevano e scherzavano, c’erano ragazzi e c’erano le loro famiglie, madri e padri e sorelle e fratelli e nonni, proprio come quelli che qualche anno dopo mi capitò di vedere a New Orleans entrare allo stadio vestiti con i colori della loro università, c’erano facce orgogliose e facce imbarazzate – penso che fosse un giorno di esami, di lauree, non lo so, non mi fermai a chiedere, so solo che l’altro giorno mi è venuta in mente questa immagine, quella dei ragazzi della University of Tennessee at Chattanooga e delle loro famiglie, e ho pensato che non ho mai visto, qualunque fosse il motivo che le aveva portate lì, persone così felici – ripresi la mia macchina a noleggio, ripassai la linea del cambiamento del fuso orario e no, non mi dispiacque così tanto il non essere andato a Memphis.