My own private America
La prima volta che sono andato in America era il 1996, ad Atlanta. Ricordo che provai una sensazione strana, che si è presentata ogni volta che ci sono tornato – un’altra dozzina: non ero stupito di ciò che vedevo, perché mi pareva di conoscere già tutto. I grattacieli, le macchine della polizia, le bottiglierie, i mall, le autostrade a dieci corsie. Cento libri, mille film, diecimila telefilm: l’America era esattamente quella che conoscevo, non lasciava spazio all’immaginazione. Poi, per i casi della vita, conobbi gli americani. Lavorai per quattro anni per un’azienda di Seattle, poi cambiai lavoro ed ebbi ugualmente a che fare con loro: alcuni erano clienti, altri erano fornitori, qualcuno diventò persino amico. Ci andai insieme allo stadio, di qualcuno conobbi la moglie e i figli, ci parlai insieme di politica e della vita di tutti i giorni. Mi capita ancora oggi. Non ho la superbia di dire che conosco gli americani, ho un campione statistico insignificante per permettermi di giudicare trecento milioni di persone. So solo che, scavando solo un po’, si scopre che gli americani siamo noi, perché uno ha i nonni norvegesi, l’altra è mezza polacca e mezza francese, questo è nipote di italiani e quello è guatemalteco e quell’altro è coreano. So solo che, rispetto a noi quarantenni europei, sono loro ad aver toccato con mano il sangue e la guerra – il nonno in Corea nel 1952, lo zio in Vietnam nel 1966, il fratello maggiore in Iraq nel 1991, il compagno di college in Afghanistan nel 2008. So solo che tutti pensiamo di sapere chi sono gli americani, e ce la prendiamo quando ci chiamano pizza mafia e mandolino.