M.
Conosco M. da non ricordo nemmeno più quanto tempo. Almeno venticinque anni, più probabilmente trenta. “Conosco” in realtà non è la parola giusta. So chi è, com’è fatto, so che ha quello che nel nostro linguaggio gentile e asettico si chiama disagio mentale, so più o meno dove abita – dove abitavo io un tempo: il palazzo non conta, si assomigliano tutti. Da quando ho ripreso a usare la metropolitana lo vedo quasi tutte le mattine: entra dalla prima porta della prima carrozza e la attraversa tutta fino all’ultima porta, incurante delle centinaia di persone sedute e in piedi che si ritagliano il loro spazio vitale fino alla discesa, le prende a spallate ma senza cattiveria, gli occhi sbarrati alla ricerca del prossimo appiglio al quale agganciarsi per vincere le scosse del vagone, poi finalmente si ferma e si aggrappa a un reggimano e lì resta; ogni tanto si gratta la testa, ogni tanto si mette a posto i pantaloni, con quei gesti nervosi e compulsivi che gli vedo fare da una vita. Molti passeggeri ci hanno fatto l’abitudine, molti altri capiscono al secondo sguardo; altri invece tirano su gli occhi dal loro quotidiano gratuito e lo fissano con un misto di sorpresa e fastidio, e io in quel momento vorrei rassicurarli, state tranquilli, è innocuo, è un bravo ragazzo – ragazzo, diosanto: M. avrà quarant’anni come minimo – non fa del male a nessuno, vorrei raccontargli che lo conosco da un’epoca lontana di capelli lunghi, Stan Smith e siringhe conficcate nei tronchi degli alberi, vorrei dirgli che M. ha un’espressione caratteristica che usava spesso quando succedeva qualcosa di nuovo e per lui strano, scuoteva un po’ la testa e diceva “sto allegro lo stesso”, ecco, non ti preoccupare di M., lui sta allegro lo stesso, ancora oggi, puoi farlo anche tu.