La spiaggia dei tartari
Di solito sono il primo ad arrivare in spiaggia, la mattina. Passo nello spogliatoio, mi sfilo la maglietta che ho messo a casa e indosso la canottiera rossa, quella con la scritta “Salvataggio”. A volte a quell’ora passa un gruppo di ragazzi che torna da una discoteca, di quelli che vengono in vacanza per dormire di giorno e provare a scopare di notte, io li guardo e con le buone gli dico di tornare nella loro pensioncina a due stelle perché non voglio casino, la mattina presto è la perfezione mandata da Dio in terra e non voglio farmela rovinare da quattro stronzetti che non sanno chi era Bukowski.
Non succede mai niente, qui. E a me va bene così. L’acqua è troppo bassa perché qualcuno possa affogare, tutto quel che devo fare è guardare il mare piatto e opaco e controllare che nessuno dia fastidio a nessun altro. Mi siedo dietro i miei occhiali da sole, saluto, come va signora Laura, guardo le coppie male assortite che camminano da destra a sinistra e poi da sinistra a destra, faccio il giudice nella gara tra due ragazzini a chi fa il tuffo più bello con rincorsa dalla prima fila di ombrelloni, aiuto la vedova di Saronno a infilare il braccio che non può essere bagnato dall’acqua salata in una specie di custodia trasparente che assomiglia a un gigantesco sacchetto per il freezer. Sotto il mio ombrellone si fermano in tanti, e io ho una parola per tutti: il calciomercato, la politica, le vacanze dell’anno prossimo o di quello passato, il ristorante dove andare a mangiare la sera. Ogni tanto mi fermo a fissare questi tipi pieni di tatuaggi e vorrei chiedergli dov’è la balena bianca, poi penso che il senso del ridicolo è relativo come quasi qualsiasi altra cosa nella vita, e allora lascio perdere. Capita che mi sorprendo a fissare queste bambine di due o tre anni, e le vedo tutte bellissime, con i loro ricciolini e la piccola pancia buttata in fuori, gli occhi grandi e quella risata di gola dei bambini piccoli, sono magnifiche come i quadri dei musei, poi mi risveglio e guardo le donne che passano sul bagnasciuga, allora mi torna in mente mio nonno che mi diceva sai, le tedesche quando hanno quindici anni sono belle che tu ci perdi la testa, ma quando arrivano a trenta sono tutte sfatte, sarà la birra che bevono, e allora io penso che qui sono tutte tedesche, chissà cos’è che ha rovinato quelle bambine bellissime, chissà cos’è che le rovinerà. Ogni giorno si ferma qualche ragazza che ci prova, se stai in un villaggio turistico c’è l’animatore, qui in spiaggia c’è il bagnino. Quelle che preferisco sono quelle che dopo cinque minuti mi chiedono se ce l’ho una ragazza, così posso dir loro di sì, anche se poi non continuo e non dico loro che lei non lo sa, o forse lo immagina che per me è così anche se ci sentiamo un paio di sere alla settimana e io le chiedo che tempo fa lì su al nord dove abita e lei ride e dice che fa caldo come qui, poi a volte mi saluta un po’ imbarazzata perché deve uscire con degli amici e io le dico ciao, buona serata, e poi vado a farmi un’altra doccia perché mi viene da piangere.
Vicino alla mia seggiola sta la barca a remi, rossa con il nome del bagno scritto in vernice bianca. Non l’ho mai usato, non ce n’è mai stato bisogno. Però la sera, prima di tornare a casa, vado nella palestra di un mio amico e mi faccio mezz’ora di esercizi perché voglio essere sempre pronto, e capita che mentre sto facendo i bicipiti mi immagino la scena, cento persone in riva al mare con il fiato sospeso mentre io volo sull’acqua facendo mulinare i remi fino a raggiungere quel bambino che Dio solo sa perché è lì, da solo, ma non importa, ormai sta per annegare e invece arriva l’eroe che lo salva. Però non succede mai niente qui, e anche quest’anno passerà senza mai aver usato la barca, e i remi. A me va bene così.