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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    27/10/2011

    (Dis)occupati

    Filed under: — JE6 @ 10:20

    Quando esco dalla South Station di Boston la prima cosa che vedo è una tendopoli sorta durante la notte. Attraverso la strada, mi avvicino per capire chi ha deciso di prendere casa qui nei Dewey Square Parks, sotto i grattacieli del Financial District. Tra due alberi è stato tirato lo striscione “Occupy Boston”; su una panchina, a un paio di metri di distanza, stanno seduti due uomini in giacca e cravatta che si godono la pausa pranzo al sole. Tre poliziotti col giubbotto catarifrangente giallo chiacchierano, uno tiene le mani in tasca.
    Faccio il giro di questo piccolo parco che in una notte si è riempito di decine e decine di tende. Molte sono canadesi da due posti, altre, quelle più grandi, fungono da centri di raccolta dei cartelli di protesta e dei materiali che i passanti portano come sostegno agli occupanti: cibo, posate, coperte, teli. Mi fermo a leggere i cartelli che ne segnano il perimetro: il capitalismo è schiavitù, le forze armate americane spendono ventiduemila dollari al secondo, le radici rivoluzionarie di Boston, ho passato otto anni nei Marines per proteggere i diritti delle persone e non delle banche, combatti i ricchi e non le loro guerre. Passa un ragazzo vestito con un saio bianco.
    Più tardi andrò su occupyboston.com per capirne un po’ di più, ma nemmeno allora riuscirò a togliermi di  quella sensazione di deja vu che mi ha preso guardando questa parata di giovani e non più giovani che dicono di rappresentare il famoso 99% della popolazione, la stessa sensazione che avverto quando passo in via Volturno a Roma, o davanti a uno qualsiasi dei centri sociali della città nella quale vivo. Non so se quello che parte da Wall Street e si allarga a Chicago e Boston e Los Angeles possa essere definito un movimento senza incorrere in tutte le tremende imprecisioni che distinguono gli stati nascenti. Dicono che sia composto in gran parte da ragazzi bianchi, acculturati e disoccupati; la destra americana li chiama anarchici, e forse è vero perché non si vedono segni di rifiuto del governo inteso come istituzione, ma piuttosto la convinzione che sia possibile autogovernarsi perché il popolo è più saggio dei suoi rappresentanti. Ed è questo che non cessa di lasciarmi perplesso, questa fiducia nella gente in quanto tale, nella famosa intelligenza collettiva, come se uno più uno facesse davvero tre e non, come tanto spesso capita, due meno qualcosa. C’è poi questo totem del novantanove per cento, come se il mondo occidentale fosse realmente diviso tra l’uno – chissà: un giudoplutomassocapitalista, immagino – che detiene tutte le ricchezze e gli altri che servono per arrivare a cento sui quali si scaricano debiti e povertà, come se quel novantanove fosse una cosa sola e non l’insieme di mille gruppi sociali ciascuno portatore dei suoi interessi regolarmente in conflitto con quasi tutti gli altri. Alzo gli occhi verso la cima dei grattacieli del Financial District, dove abita l’Uno, e li riporto verso la stazione che vomita passeggeri e le quattro corsie di Atlantic Avenue nelle quali si muovono i novantanove. In mezzo le tende dove una signora sui cinquant’anni sceglie il suo cartello come se fosse un paio di scarpe – mi donerà di più lo slogan sulle guerre dei capitalisti o quello sulla vita dei bianchi ricchi. Sul marciapiede una donna-sandwich indossa un pezzo di cartone sul quale sta scritto “Honk if you support us”: ogni tanto un automobilista diretto verso nord suona il clacson e alza il pollice, la donna ringrazia, dei novantanove novantasette apparentemente continuano la loro vita, business as usual.
    [Appunti di quasi un mese fa]

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