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28/02/2012
E’ da quando sono arrivato che mi porto dietro questa sensazione di noia. Eppure Londra mi piaceva, e tanto – magari meno di Madrid, o di quasi tutte le città americane che ho visto, e però. Sarà che posso elencare le fermate della Piccadilly Line da Heathrow a Earls Court come se fossero quelle della linea 1 di Milano, Hounslow West-Central-East, ad Acton Town sei a metà. Sarà che sono molto stanco e non ho voglia di rumori e di luci. Sarà che come diceva il Blasco alla fine ogni cosa ti stanca, tutto qui – e ci si stufa anche di mangiare caviale, dicono. Sarà tutto questo, ma quando rientro in albergo dopo la giornata passata in fiera non ho voglia di vetrine, cattedrali, musei, quadri, souvenir, teatri, non ho voglia di Marble Arch e dei negozi per pittori di Charing Cross, di taxi bombati e tutto quanto fa spettacolo. Mi cambio, vado alla stazione di Earls Court, chiedo istruzioni. Corro dietro a un double decker, mi faccio spiegare la strada, devi scendere a Clapham Junction che sembra un incrocio tra Lampugnano e piazza Barberini e poi prendi l’altro autobus e dopo non puoi sbagliare e infatti non sbaglio. La Battersea Power Station sta lì, tra il Tamigi e Nine Elms, circondata dallo scheletro di un gasometro o qualcosa di simile e dal recinto di un enorme cantiere, da vie sconnesse, sacchi della spazzatura, piscio, gru, camion, officine. Credevo che vedendola avrei risentito nelle orecchie Sheep, e Pigs on the Wings, e tutto il resto di quel disco che ho sempre in macchina e che ascolto da quando ho memoria di musica. Invece rimango lì a guardarla e basta, è enorme e dissestata e inquietante, una cosa che fai fatica a staccare gli occhi. Per poterla vedere bene di fronte faccio il lungo giro del William Henry Path, e riattraverso il Tamigi sul Vauxhall Bridge e poi torno indietro, nella stessa inquadratura c’è la vecchia centrale elettrica in disuso e il grattacielo da quaranta piani in costruzione, l’una a poche centinaia di metri dall’altro, che a voler trovare simbolismi non c’è nemmeno da fare molti sforzi, si butta via e si ricostruisce, vecchio e nuovo, ruderi e vetrate. Entro in un pub, ordino da mangiare e una birra, mi siedo vicino alla finestra da dove posso vedere l’edificio con le sue quattro ciminiere bianche che sembrano altissime, sto lì a guardare finché viene buio e la centrale sparisce e ci sono solo le luci delle macchine che passano.
25/02/2012
La vita è quella cosa che succede tra il panettone e l’uovo di Pasqua, mentre tu stavi lavorando.
22/02/2012
Abbiamo troppo poco tempo, giusto due ore buche – come a scuola – tra la fine degli incontri con le aziende che stiamo selezionando e il rientro in aeroporto dove ci rimetteremo a telefonare e mandare mail proprio come se fossimo in ufficio, con la sola differenza che qui non c’è la macchinetta del caffè. Il tassista ci chiede dove vogliamo andare, e noi diciamo in centro, lui risponde centro dove, fai tu e allora fa lui, all’inizio della zona pedonale. E’ la prima volta che vengo qui, probabilmente non sarà l’ultima e mi faccio l’idea che a maggio dev’essere tutto sommato un bel posto (ma forse tutti i posti sono belli a maggio, anche Marghera e la Falchera a Torino). Però oggi fa freddo, c’è nell’aria quell’umido che viene appena prima della nebbia, la neve sporca a grandi mucchi intorno ai pali della luce e lungo i marciapiedi, un grigio uniforme che dà l’idea di fumo di carbone e tapparelle sbilenche. Come al solito inizia il deja vu delle somiglianze, questo palazzo sembra Bucarest, e questa via il quartiere della sinagoga di Varsavia, quella banca? che ne pensi? beh, Salisburgo e così via, a mettere insieme pezzetti del puzzle mentre camminiamo verso la fortezza, quella che dà sul fiume, dove i cartelli dicono stai attento che se cammini qui rischi la vita e in effetti basterebbe mettere male un piede sul ghiaccio per volare trenta o quaranta metri più in basso – entriamo in una chiesa serbo-ortodossa e finalmente ci sono colori e caldo, gli ori delle decorazioni, le icone, le candele sottilissime come lunghi stuzzicadenti, una donna ferma davanti a un Cristo, lei che guarda lui e lui che guarda lei perché sono messi alla stessa altezza, un ragazzo che entra di fretta, bacia un dipinto della Madonna e si fa quel segno della croce con il terzo tocco sulla spalla destra, sarebbe quasi da fermarsi qui penso, devo cercare la maglia di Stankovic, mi dice. Andiamo, tanto lo sappiamo che qui torneremo.
21/02/2012
Esco dal centro storico, seguo Slovenska Cesta fino alla fine – che poi è l’inizio, solo che la prendo sempre dall’altro lato -, passo davanti alla sede di un mio vecchio cliente, guardo un paio di vetrine con i cartelli degli ultimi giorni di saldi, poi giro a sinistra e mi trovo per la prima volta in questi vecchi quartieri, che stanno fuori dalle mura medievali, dove una volta vivevano i pescatori e oggi si trovano orti e case che più ci si allontana dal centro e più si abbassano, prima palazzi, poi palazzine, poi villette che alla fine pare di stare in un paesino del reggiano, c’è il silenzio delle sei di sera e della gente che è già rientrata a casa e sta preparando la cena, da una macchina scendono un uomo e un bambino biondo e piccolo, avrà forse tre anni, che mi guarda e chissà se gli faccio l’impressione di un estraneo che con Krakovo e il canale della Gradascica non c’entra nulla, i turisti qui non ci vengono, e allunga la mano e mi indica con il suo indice paffuto e dice qualcosa che non capisco, gli faccio un mezzo sorriso perché non si sa mai, uno intero magari insospettirebbe l’uomo che dovrebbe essere il padre, poi torno verso il centro, perché girare in queste vie non so, è come stare in casa di gente sconosciuta, e senza essere stato invitato.
Li ho visti per la prima volta poco più di quattro anni fa, la prima volta che sono venuto qui – una fattoria a poche decine di metri dall’autostrada, con tutte le sue cose, i covoni se è stagione, un piccolo trattore, gli attrezzi, e poi loro, quattro o cinque gommoni, di quelli che vedi al mare, un paio più grandi e gli altri più piccoli, con le galline che gli girano intorno, oggi c’era anche la neve che iniziava a sciogliersi nello strano e inusuale caldo di un martedì di febbraio sloveno, bastava guardare nello specchietto retrovisore e vedevi ancora le colline bianche con i rami appesantiti dei pini, e loro – i gommoni – lì, al loro posto, apparentemente curati ma inesorabilmente inchiavardati in un’aia a pochi chilometri dalla città, nella terra di mezzo tra agglomerato urbano e aperta campagna, e non so perché, ma ho questa certezza che il mare non l’abbiano mai visto, che non abbiano mai visto nemmeno l’acqua del lago di Cerknica, che stiano lì come i leoni dell’MGM di Las Vegas, come l’elefante del circo Medrano, fuori luogo e fuori tempo, e ormai dentro il loro luogo, e il loro tempo.
18/02/2012
Occhio e croce, il vero segno della crisi del Manifesto non è la fossa delle Marianne dei suoi conti economici e finanziari ma il dire “ehi, visto? Ecco qui Dustin Hoffman, uno che non sa minimamente cosa sia ‘sto pezzo di carta che tiene in mano, va’ che bel sorriso, ma è mai possibile che ci tolgano i soldi dei contributi statali all’editoria?”.
16/02/2012
Ci sono lavori, come il mio, che ti portano in giro. Spesso. E così finisce che ti ritrovi in certi posti lontani e a loro modo strani ben più frequentemente di quanto non ti capiti con casa tua, con la tua città. Va a periodi, stagioni che sei a Porta Pia tutti i mesi – e poi puff, basta -, altre che vai a San Marino ogni due per tre, adesso vengo a Ljubljana una volta al mese da settembre dell’anno scorso e la cosa andrà probabilmente andrà avanti e infatti ho comprato il bollino dell’autostrada, quello che vale un anno, lui dice che dai, rischia, magari porta bene. Comunque sono qui con gli stessi automatismi che ho nel mio quartiere di Milano, quello dopo la biforcazione – là avanti l’accademia di musica, se alzo un po’ la testa il castello, la prima a destra e poi a sinistra e c’è il parcheggio, in quel vicolo c’è il negozio dove compri i sigari, c’è sempre il locale illuminato di viola con i tavoli all’aperto? sì, basta passare il secondo ponte, quello dei musicisti, la vetrina con i boccali di birra di antiquariato, il kebabbaro vicino al palazzo delle Poste, la fermata dell’autobus di fronte alla libreria – non c’è più la sorpresa del nuovo, ma quella specie di tranquillo calore delle cose conosciute e non ancora venute a noia.
15/02/2012
Stiamo chiudendo la telefonata, abbiamo fissato l’appuntamento – venite voi da noi, sì certo -, siamo pronti tutti e due a tornare alle nostre cose, e in quel momento lo sento salutarmi dicendo “un abbraccio”. Che non c’è nulla di male, sia chiaro, è solo che mi prende alla sprovvista e in quel secondo che mi ci vuole per schiacciare il tasto rosso e appoggiare il telefono sulla scrivania mi torna in mente l’immagine di quello stand che ho visto un paio d’anni fa, stavo andando a parlare con un signore che non conoscevo e che avrei trovato vestito con un kilt scozzese, e in questo stand c’era una ragazza, piccola, molto carina, con un cartello al collo che diceva hugs for free, e la gente si metteva in coda, lei sorrideva e abbracciava – niente baci, gli americani non li amano -, chi voleva poteva anche farsi fare una foto, e con quell’immagine negli occhi cerco di realizzare quando abbiamo iniziato ad abbracciare e farci abbracciare così, tra clienti e fornitori, tra colleghi, tra amici degli amici, for free e for nothing.
13/02/2012
C’è la sindachessa brutta e cattiva in uggia a tutti, c’è la sua compagna di partito bella nuova e duepuntozero che alla fine prenderà persino meno voti del mostro incumbent, ci sono i dirigenti che non sono capaci di dire “signore care, alle primarie il partito si presenta con un nome solo” – c’è da dire che a volte il PD organizza la sua presenza alle primarie in un modo che pure Paperoga vincerebbe a mani basse se solo si presentasse come indipendente.
11/02/2012
E’ vero, le cose spesso sono semplicemente quel che sono e mostrano di essere – un sigaro, un giornale, un’automobile; però se appena appena seguite il rugby è praticamente impossibile non vedere nella nostra nazionale il ritratto perfetto del paese che rappresenta.
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