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28/04/2012
Non che sia un pensiero particolarmente originale, intendiamoci: comunque io, che Alessandro Baricco sia uno di quelli che meglio sanno raccontare le cose che abbiamo in questo paese è una cosa che penso da tempo: come i due Angela, e il Paolini di cui scrive Keplero, e pochi altri. A volte gli scappa di farlo senza nemmeno rendersene conto, senza volerlo – guardate la sua ultima intervista alle Invasioni barbariche, i poco meno di quattro minuti da 8:30 a 12:20 dove racconta un mondo, un mondo intero con le generazioni e le case e le azioni e gli stati d’animo, meno di quattro minuti e hai tutto davanti a te, capisci tranquillamente anche senza averne mai fatto parte di quel mondo (e se invece ci sei stato dentro, ci sei nato e cresciuto ti ritrovi con la mascella cascante a dire “eh, è proprio così, parola per parola, odore per odore, salotto per salotto”), e alla fine ti viene da pensare che se ti chiedesse soldi per dieci minuti piuttosto che per centosettanta pagine di parole quei soldi glieli daresti subito, e con un’opzione per i prossimi, gli venisse mai in mente di cambiare idea.
(Poi non fate caso a quella camicia blu, a volte – molto raramente – capita pure a lui di vestirsi male e di essere appena appena meno figo del suo standard; nessuno è perfetto)
26/04/2012
Metelkova, chissà se è ancora in piedi, mi dice. Ci arrivo in pochi minuti, in fondo questa città è davvero piccola, dalla stazione a sinistra, la seconda a destra e sei arrivato. Metelkova Ulica, una via come molte altre, con i palazzi moderni e gli edifici asburgici, qualche macchina e molte biciclette. Sulla sinistra Metelkova, che prende il nome dalla strada che lo ospita; non è facile dire cosa sia, un po’ centro sociale, un po’ ritrovo di artisti, un ostello, là dietro una specie di parco giochi per adulti, decine di metri di panche di legno per sedersi e bere. Arrivo in un orario sospeso, i concerti e i dibattiti e tutto il resto, deve ancora iniziare tutto, guardo i muri dipinti, una specie di ragno metallico che ricopre mezza parete dell’edificio a fianco dell’ostello, le creste dei punk, un signore sulla cinquantina che fuma una sigaretta fatta a mano, una pulizia incongrua per il tipo di posto nel quale siamo. Poi tutto d’un colpo mi viene fuori la stanchezza della giornata, tre ore fa mettevo a posto il nodo della cravatta e adesso sto qui insieme a ragazzi che hanno la metà dei miei anni e a fricchettoni fuori tempo massimo e capisco di aver solo voglia di sedermi tranquillo, non dico comodo, giusto tranquillo, senza pensare di sentirmi – chissà poi perché – ridicolo. E’ bello Metelkova, se passate di qui fateci un salto, sono belli i colori e le case e le cose – poi magari fate come me, dopo poco ve ne andate perché non tutti i posti sono giusti, però se passate di qui, ecco, ve l’ho già detto.
Senza cercarla, mi trovo di fronte la stazione. Anzi, le stazioni. Quella dei treni e quella dei pullman. Si vedono le montagne innevate là, schiacciate nella prospettiva a pochi centimetri da quel palazzo tagliato come se fosse un trampolino da salto con gli sci, come quello di Planica, vicino a Tarvisio. E’ piccola, la stazione dei treni. Otto binari, “tir” si chiamano in questa lingua incomprensibile, forse anche Parma ne ha di più. La attraverso, passo in mezzo al McDonald’s che confina con la biglietteria, e mi fermo davanti ai tabelloni degli orari. Guardo le partenze, gli arrivi non mi interessano, Postojna, Sežana, Zagabria, Belgrado, Budapest. Tempi infiniti, nove ore per arrivare in Serbia, nove per l’Ungheria, due per gli ottanta chilometri che portano quasi al confine con l’Italia, senza arrivarci. Penso che mi piacerebbe farlo, uno di questi viaggi. Nove ore per scendere a sud fino all’alfabeto cirillico, e chissenefrega se in macchina ne impiegherei poco più della metà, oppure i due giorni e mezzo per arrivare fino a Istambul partendo proprio da qui, da Ljubljana, secondo le indicazioni di Rumiz – l’Orient Express non c’è più, ma in fondo ci si può sempre arrangiare. Mi piacerebbe anche prendere uno di questi pullman sfiancati che si fermano nel piazzale della stazione, ciascuno sotto il suo numero di linea, da uno a ventisei, e vedere come cambia il panorama fuori dai finestrini per arrivare a Banja Luka, a Spalato, a Karlovac, a Sarajevo, senza capire una sola parola di quel che viene detto, guardando le facce e gli alberi e le case, ché qui sembra sempre l’Austria ma là, in mezzo, a sud, chissà.
21/04/2012
Naturalmente, le cose non finiscono mai dove pensi (o meglio: speri) che potrebbero/dovrebbero/sarebbe bello che. E quindi, dopo aver tagliato il tagliabile, ci sono la crisi e il calo delle vendite e la riduzione dei margini e la concorrenza. Ci sono le cavallette e il-mio-mestiere-è-far-risparmiare-il-più-possibile. C’è tutto e poi altro ancora. C’è un lungo momento, un’ora che poi diventa un pomeriggio che poi diventa un giorno durante il quale ti attacchi al telefono e tratti, limi, minacci, blandisci, e fatto questo ti rimetti davanti alla grande tabella con tutte le sue celle e formule, dietro ognuna delle quali ci sono aziende e persone, e cambi ancora le percentuali, e i termini di fatturazione, e valuti l’up-selling, e consideri gli anni di durata dell’accordo come se davvero tu sapessi dove sarete e cosa farete tu, loro, tutti quanti fra tre o cinque anni. Alla fine c’è un’ultima telefonata, questa è la bottom line, va bene, allora vediamoci per discutere i dettagli del contratto, come siete messi la prossima settimana, grazie, ciao, ciao. Quando schiacci il tasto rosso del telefono nell’ufficio si fa silenzio perché nessuno riesce a sentirsi davvero contento, perché tutti pensano a quei dettagli, quelli nei quali si nasconde il diavolo, tutti si chiedono quando si capirà se ne è valsa la pena, tutti si rendono conto di quanto sangue, incredibilmente, si può cavare a una rapa.
12/04/2012
Ho davanti agli occhi questa grande tabella. Righe, colonne, costi, ricavi, margini. Sono alla quinta revisione, senza contare quelle intermedie, piccole, quando cambi giusto una voce più per vedere l’effetto che fa che per reale convinzione o bisogno. Per arrivarci ho impiegato settimane, soprattutto l’ultima – subito prima e subito dopo Pasqua (e parte del durante) – e molte migliaia di chilometri, e qualche centinaio di email e telefonate, e tante riunioni in posti a volte improbabili (una delle cose belle del lavoro che faccio è trovarsi a finire uno di questi incontri e sentirsi dire guarda, è tardi, fermati qui a mangiare prima di rientrare in città così durante la cena finiamo le cose che abbiamo in sospeso, adesso ci prendiamo mezz’ora e ti porto a vedere il lago che scompare, e dieci minuti dopo camminare sul fondo di un lago carsico nel mezzo di un’oasi naturalistica). Ecco, le ultime riunioni sono state le più pesanti. Perché sedersi di fronte a qualcuno e dirgli dobbiamo tagliare del venti-trenta-quaranta per cento se vogliamo restare in gioco non è mai facile – ci hai provato prima scrivendo nel tuo miglior inglese, ma alla fine ogni tanto la gente devi guardarla in faccia, è la gente con cui dovrai lavorare, non puoi startene lì nella tua torre d’avorio (che poi sarebbe la scrivania dell’ufficio, o il sedile della macchina: ma ci siamo capiti), devi accettare i volti che si induriscono, gli occhi che si stringono, le voci che si impostano per risponderti well, your request is simply brutal, devi provare a immaginare cosa sta dietro quelle risposte sapendo che no, non sempre, ma in alcuni casi si tratta di persone, posti di lavoro, automobili, mutui: è come guardarsi allo specchio, insomma. E poi ci sono i dettagli, le piccole cose: ma la tabella è grande, e di piccole cose ce ne sono dentro parecchie. Dove possiamo risparmiare? Guarda qui, magari la metratura degli uffici, e una linea telefonica condivisa invece che due dedicate, e quell’altro albergo, hai presente, sì, va bene – ti sembra di raschiare il fondo del barile, ti sembra di sprecare il tuo tempo dietro alle scemenze e invece, come avresti dovuto imparare già tanti anni fa leggendo le storie di Zio Paperone, il cost saving lo fai anche così, su qualche metro quadro, sulle stelle degli alberghi, sul far benzina da una parte o dall’altra del confine e non importa se poi i risparmi sono simbolici, i simboli contano perché sono simboli e perché costano (ed è una cosa che cercherò di ricordarmi la prossima volta che seguendo un talk show politico sentirò qualcuno dire beh ma non penserete che siano questi i risparmi che ci fanno uscire dalla crisi) – e poi, diosanto, bisogna pur arrivare a sera e potersi dire ho fatto tutto il possibile, prima di salvare il file e prepararsi all’ultima riunione.
03/04/2012
Secondo il Corriere, Cristina Parodi porterebbe a La7 un’anima pop – dovessero sentire Napolitano che fischietta “Cuore matto” gli darebbero dell’indie, immagino.
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