Viti e bulloni
Una volta facevo un lavoro che mi faceva sfogliare le Pagine Gialle. Metaforicamente, perché in realtà avevo davanti agli occhi un interminabile elenco di categorie merceologiche, descrizioni più o meno fantasiose o precise di ciò che gli umani producono e coltivano e vendono e comprano e scambiano per sbarcare il lunario. Mi ci perdevo dentro, cercavo di figurarmi i produttori di “aghi e spilli” e quelli di “botti barili e tini”, mondi fatti di “cesellatori ed incassatori”, chi fossero i compratori di “fibrocemento manufatti lastre e tubi”, se esistevano ancora gli “impianti e attrezzature di posta pneumatica”: era uno spasso, che durava sempre troppo poco. Ogni tanto entro in questo piccolo negozio del mio quartiere, sta incastrato tra un’agenzia di pompe funebri, una farmacia, un panettiere, il circolino dove i soci bevono un bicchiere di rosso a un euro e spicci e il barbiere dove mia mamma mi portava da bambino e dove vado ancora oggi anche se non c’è più il cavalluccio di metallo nell’angolo a sinistra vicino alla vetrina. E’ un negozio buio, oppresso da mille scaffali alti fino al soffitto e pieni di qualsiasi cosa possa venirvi in mente – e soprattutto di qualsiasi cosa possiate aver bisogno. Tubi di scarico, sifoni, cassette per gli attrezzi, ventilatori, rotoli di biadesivo “guarda, più forte di questo non c’è proprio nulla”, chiavi inglesi, tester, infissi metallici e non, tapparelle, cassette per la posta, zerbini. Poco fa, mentre aspettavo che il signore davanti a me finisse di concordare con il vecchio proprietario – un signore gentile e scorbutico che era già anziano quando salivo sul cavalluccio del barbiere – la sostituzione a domicilio di una serratura difettosa, sono rimasto qualche decina di secondi a fissare inebetito una confezione di pannoloni per adulti, che se ne stava lì, impolverata e tranquilla, tra scatole di oggetti dei quali io, che non ho mai saputo fare un lavoro manuale più complesso del sostituire una lampadina, non conosco nemmeno il nome. Dovevo comprare un rotolo di biadesivo, proprio quello “guarda, più forte di questo non c’è proprio nulla”, il gentile e scorbutico padrone del negozio mi ha indicato col dito una scatola grigia e anonima che ha conosciuto i governi Fanfani e ha detto “prendi quello, sì, fai pure tu”; quando ho tirato fuori il portafogli per pagare ho visto le confezioni di Duracell emergere dall’agglomerato laocoontico di carte, cacciaviti, lampadine e taglierini che ingombra perennemente il piano e gli ho detto “mi dia anche due di quelle, per piacere” pur sapendo che all’Esselunga che ho davanti all’ufficio e dove entro praticamente ogni giorno avrei speso un terzo in meno, ma io voglio che questo piccolo negozio, compendio di periferia delle Pagine Gialle dell’esistenza quotidiana, non sparisca, non ancora, voglio poter continuare a contare per mille anni ancora sulla possibilità di entrare da quella porta con in mano un pezzo di metallo – una vite, un bullone, una brugola (si chiama brugola, vero? esiste?) -, mostrarla all’anziano signore gentile e scorbutico, chiederne una confezione e sentirmi dire “lì, sulla tua sinistra, alza la mano, la terza scatola dopo la corda delle tapparelle”.