< City Lights. Kerouac Street, San Francisco.
Siediti e leggi un libro

     

Home
Dichiarazione d'intenti
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

Talk to me: e-mail

  • Blogroll

  • Download


    "Greetings from"

    NEW!
    Scarica "My Own Private Milano"


    "On The Blog"

    "5 birilli"

    "Post sotto l'albero 2003"

    "Post sotto l'albero 2004"

    "Post sotto l'albero 2005"

    "Post sotto l'albero 2006"

    "Post sotto l'albero 2007"

    "Post sotto l'albero 2008"

    "Post sotto l'albero 2009"

    "Post sotto l'albero 2010"


    scarica Acrobat Reader

    NEW: versioni ebook e mobile!
    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione mobi"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione mobi"

    Un po' di Copyright Creative Commons License
    Scritti sotto tutela dalla Creative Commons License.

  • Archives:
  • Ultimi Post

  • Deflated
  • Lungo il fronte
  • Dentro la circonvallazione
  • Dito, luna
  • “E non dire di quelli che sono morti sulla via di Allah: ‘Sono morti’. No, sono vivi ma tu non li senti”
  • Ieri
  • “Aspetto”
  • A fianco
  • Ventidue, e sentirli tutti
  • Posta inviata
  • November 2012
    M T W T F S S
     1234
    567891011
    12131415161718
    19202122232425
    2627282930  

     

    Powered by

  • Meta:
  • concept by
    luca-vs-webdesign

     

    10/11/2012

    Zwei unbekannte Soldaten

    Filed under: — JE6 @ 13:06

    Sto sfogliando le pagine del “Piccolo” di Trieste, unico cliente di una trattoria di Opicina. C’è una pagina intera scritta da Paolo Rumiz, seguito di un articolo precedente “sull’ingiusto oblio dei Caduti e combattenti triestini, goriziani, istriani, fiumani e dalmati in divisa austro-ungarica nella prima guerra mondiale”. Lo leggo mentre finisco il mio quarto di bianco, faccio due conti veloci, quanto dista Prosecco, a che ora posso arrivare a Milano, quanto tempo posso impiegare per trovare il cimitero di guerra austroungarico di cui scrive Rumiz. Sette minuti per arrivare a Prosecco, affianco una signora anziana che ha delle verdure in mano, le dico cosa sto cercando, lei dall’altra parte del finestrino mi guarda come se le stessi parlando di fisica quantistica e in un misto di italiano e triestino mi dice che non ha mai sentito parlare di quel cimitero, vada avanti un chilometro fino ad Aurisina, poi chieda in piazza. Obbedisco, non trovo nessuno a cui chiedere, il navigatore non mi è di aiuto. Decido che sarà per la prossima volta, torno verso l’autostrada e come sempre capita eccolo, il cartello giallo nascosto dietro un angolo che non avrei mai visto se le curve di questa provinciale non obbligassero ad andare a trenta all’ora. Dopo cinquanta metri la strada si divide e naturalmente non c’è più alcuna indicazione, come se si volesse evitare di far arrivare chicchessia a quel cimitero, renderne impossibile la frequentazione per annullarne il ricordo, e l’esistenza. Scelgo uno dei due vicoli, dopo un paio di centinaia di metri incontro un signore che sta facendo due passi tra gli alberi umidi di questo bosco e lui sì, lui sa, guardi è proprio lì avanti, stia solo attento alle buche della strada. Ha ragione, ormai ci sono, giusto altri tre minuti di fango, buche e rovi. Apro il cancello, guardo le croci di pietra, l’erba alta e non curata, le tante sterpaglie, i fiori finti bianchi o rosa che stanno ai piedi di alcune tombe. Leggo le targhe, piccoli rettangoli metallici sui quali stanno scritti i nomi dei caduti. Sono cognomi tedeschi o austriaci, molti ungheresi, ne trovo uno italiano. Mi chiedo come comunicassero tra loro questi uomini, se erano divisi in plotoni per provenienza e lingua, cosa li unisse, come si salvavano la vita a vicenda un caporale del Balaton e un soldato di Lienz – forse a gesti, a spintoni, di istinto come animali. Faccio un rapido conto delle croci, saranno sette o ottocento, forse un migliaio. Leggo un’altra targa, sotto il nome di un soldato austriaco c’è la scritta “Zwei unbekannte Soldaten” – due soldati sconosciuti, dei quali non si sa il nome, militi ignoti. Mi avvicino al piccolo altare in pietra sormontato da una croce dove in tre lingue – italiano, tedesco e quel che credo essere sloveno, certo non è ungherese – si dice che qui stanno i resti di 1934 soldati austroungarici. Ci sono lumini sui quali sono stati intrecciati nastri tricolori magiari, c’è una corona con un nastro bianco e rosso lasciata dalla Croce Nera d’Austria, l’associazione che mantiene in vita il ricordo dei soldati austriaci morti nelle due guerre visitando i cimiteri di guerra sparsi per l’Europa. Un migliaio di croci, il doppio di morti, il conto degli unbekannte è fin troppo facile. Esco dal cimitero e mentre chiudo il cancello incerto della sua entrata mi chiedo se la settimana scorsa, nel weekend che noi fingiamo di dedicare ai nostri morti qui sia venuto qualcuno a far visita, mi chiedo se per caso questi cinque minuti passati nel mezzo di un bosco della provincia di Trieste con l’asfalto dell’autostrada a meno di mezzo chilometro di distanza non siano stati un omaggio a qualcuno che non se lo meritava: gli austroungarici sono stati nel 15-18 quel che le SS sono state venticinque anni dopo? Non lo so, dovrei leggere, dovrei studiare, dovrei capire, perché non vorrei fare la fine di quella buona signora che ho fermato a Prosecco, quella che non poteva non sapere di questo posto e invece. E mentre penso questo penso pure la cosa contraria, se abbia senso, cent’anni dopo, rifiutare al caporale del Balaton e al soldato di Lienz quel minimo sindacale di pietà che sta nel fermarsi a guardare le loro tombe e appoggiarvici sopra la mano, e anche a questa domanda non so darmi risposta.

    09/11/2012

    Greetings from Ljubljana 2012 – Casa

    Filed under: — JE6 @ 09:15

    Passo questi giorni a Ljubljana a casa di un collega, un signore che per seguire un mio cliente si è trasferito qui, vista castello. E’ strano fare la solita vita – parcheggiare la macchina, aprire il trolley, andare a cena in uno dei ristoranti che nell’ultimo anno abbiamo imparato a conoscere così bene, dormire il sonno spezzato dei giorni che precedono appuntamenti importanti o difficili (non che il sonno degli altri giorni sia lineare: ma ci siamo capiti) – e al tempo stesso non trovarsi nella solita routine – la doccia usando le boccette di shampoo e bagnoschiuma dell’albergo, what’s your room number Sir per la colazione, la televisione con cento canali in dieci lingue. E’ come essere, paradossalmente, persino più ospiti del normale: se lasci qualcosa in disordine non tocca a una cameriera pagata per quello rimettere a posto le tue incurie, ti muovi un po’ in punta di piedi, guardi i particolari della vita vissuta – uno stipite appena scheggiato, un tappeto, i libri nel mobile del salone, cose così. Poi ti svegli, ti prepari, scendi al piano di sotto, apri tutti i cassetti della cucina prima di riuscire a trovare un cucchiaino, incroci il collega in accappatoio che si è svegliato tardi ed ha appena finito la doccia: e ti viene da ridere, un po’.

    06/11/2012

    (Non ci sono più le) Mezze stagioni

    Filed under: — JE6 @ 14:00

    L’inverno inizia quando monti i pneumatici – appunto – invernali: cioè oggi. Il periodo natalizio inizia quando nella cassetta della posta trovi la prima busta di raccolta fondi. Cioè ieri.

    05/11/2012

    L’Uomo Più Potente Del Mondo

    Filed under: — JE6 @ 13:00

    Sono cresciuto, come credo moltissimi altri occidentali della mia generazione, nell’idea che il Presidente degli Stati Uniti fosse L’Uomo Più Potente Del Mondo – maiuscole incluse. Quello che poteva pigiare il tasto rosso della valigetta nucleare, quello che poteva mandare soldati e aerei e navi in ogni più lontano anfratto del globo e uscirne vincitore (non sempre, d’accordo; ma abbastanza spesso), quello che alzava il telefono e non aveva nemmeno bisogno di alzare la voce – dear Prime Minister, I’m the President -, quello che, last but not least, poteva avere un’affaire con l’attrice più bella del mondo e all’inizio della stagione del baseball avere l’onore del primo pitch del campionato.
    Qualche dubbio sulla reale forza dell’UPPDM ammetto che mi era già venuto in passato: se sei l’UPPDM non puoi farti fregare da due giornalisti, anche se uno pare sempre sotto acido e l’altro è alto, bello e biondo; né ti sparano in testa mentre stai dispensando sorrisi a bordo di una decapottabile; né, infine, fai il protagonista per sette stagioni di una serie tv lasciando pensare ai tuoi fan che sì, guarda, va bene tutto ma io al posto tuo nemmeno sotto tortura.
    Ma i veri dubbi mi sono venuti una decina di giorni fa, mentre trascorrevo la terza settimana in quattro mesi a Shanghai. Ci sono arrivato da Detroit, che è forse la città americana dove oggi puoi maggiormente avvertire quel che l’UPPDM può fare, e anche quel che non: se non è ridotta a un cumulo di macerie fumanti buono per il set di un film dell’orrore post-nucleare lo deve per metà a un signore che non mette mai la giacca e per l’altra all’UPPDM (il quale quindi ha bisogno di qualcuno che gli dia una mano per esser tale: il che suona un po’ come una contraddizione in termini, a voler essere rigorosi). Poi attraversi il Pacifico, fai un colloquio a una ragazza con un curriculum che a Milano le farebbe guadagnare due volte e mezzo quel che prende oggi a Pechino, le chiedi se la sua azienda le dà dei fringe benefit e lei risponde sì, certo, cinque giorni di vacanza all’anno, e ti ritrovi sommerso dall’affascinante e inquietante tsunami dei cinesi che lavorano novanta ore a settimana senza essere Gordon Gekko, e hai a che fare con un signore che senza battere ciglio sborsa trenta milioni di euro per rilevare un esangue marchio di moda italiano tenendone giusto il logo perché al resto ci pensa lui, e Facebook chissenefrega tanto abbiamo Weibo e siamo già in quattrocento milioni e in generale ti pare di sentire intorno a te il vento di quello che temevi potesse essere il futuro e invece è già il presente, allora cominci a pensare che forse dovresti cercare qualche informazione in più sul nuovo Primo Ministro cinese, e che puoi pure risparmiarti la notte in bianco per vedere asinelli blu ed elefanti rossi riempire la cartina dei cinquanta stati: se alla favola dell’UPPDM non ci crede Jed Bartlet, c’è un motivo al mondo per cui ci debba credere io?

    04/11/2012

    My other world is just half a mile away

    Filed under: — JE6 @ 19:55

    In quattro giorni lontano da Internet ho sentito pronunciare la parola “primarie” una volta. Frequento la gente sbagliata, devo solo capire quale.