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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    29/01/2013

    Any colour you like

    Filed under: — JE6 @ 11:37

    Passavo in viale Tunisia, ieri pomeriggio. Sulla destra, andando verso Piazza della Repubblica, c’è questo palazzo, avrà tre piani. Avrà avuto, perché è completamente sventrato, sono rimasti i due lati su quattro che si accostavano alle case adiacenti, si vede che ci ricostruiranno sopra o dentro qualcosa di nuovo – case più lussuose, un parcheggio a silos, cose così. Sono rimasti i colori, i colori delle imbiancature fatte da chi abitava quegli appartamenti. Si vedono proprio le macchie rettangolari, tre metri e venti per due e cinquanta, una azzurra, una che probabilmente era rosa, un giallino, alcuni grigi che chissà se era proprio quello il colore oppure hanno strappato una tappezzeria ed è rimasto solo il muro grezzo. Quando ti avvicini ti basta alzare appena l’angolo degli occhi per vedere questa specie di tavolozza, e immaginare – quello sarà stato un salotto, e quell’altra stanza, con quel colore, la cameretta di una ragazza, non ne posso più di questa tonalità, mi mette la tristezza, voglio qualcosa di allegro, e quel muro chissà quante volte sarà stato ridipinto, magari prima ci viveva una nonna, la vita degli altri vista attraverso una mazzetta Pantone per giganti.

    27/01/2013

    I said, “Do you speak-a my language?”

    Filed under: — JE6 @ 20:46

    Qualche giorno fa ho finito di leggere “Brigate Rosse – Una storia italiana”, il libro che venne fuori dalla lunghissima intervista che Rossana Rossanda e Carla Mosca fecero a Mario Moretti nel 1993. E per tutto il libro la cosa che mi girava per la testa non aveva a che fare con i morti, con l’idea della rivoluzione armata, con Moro, no, era qualcosa che aveva a che fare con la lingua, le parole, le frasi. Mi rendevo conto che quel che Moretti diceva io lo capivo: capivo quel che voleva dire, quel che diceva, come lo diceva. Il che, ovviamente, non significava essere d’accordo; significava però parlare una lingua comune, o quantomeno una lingua con radici comuni. Quali siano queste radici non lo so, non ho quel tipo di formazione, di storia, sono più giovane di Moretti, figlio di un’altra generazione, di un altro ambiente (e, per inciso, di un carabiniere: uno che, per il suo semplice essere tale, per Moretti era un nemico contro il quale era legittimo usare le armi). Sono giorni che ci penso, che mi chiedo se un ventenne oggi potrebbe leggere quel libro e capire, che mi chiedo perché io ho capito, e se faccio parte di un gruppo di persone che ha letto troppo di politica e di cronaca politica, che si è abituata a dare quel significato a quelle parole, che invece per gente “normale” ne ha un altro, o non ne ha per nulla.

    19/01/2013

    Pesci rossi

    Filed under: — JE6 @ 19:01

    Aspetto più o meno tranquillamente il mio turno – le solite cose, far vedere delle analisi, come va, è passata sua mamma l’altroieri – quando dalla porta esce questa donna, piccolina, vestita bene come può farlo qualcuno che a fine mese ci arriva trattenendo il respiro, con quindici chili di troppo che da tanti anni ha rinunciato a perdere perché per dimagrire ci vuole una tigna che a volte nella vita non ci si sente di dedicare. Da una delle sedie si alza un’altra donna, una di quelle conoscenze di quartiere, forse la madre di un compagno di classe del figlio quando andava alle elementari, o una di quelle facce che si vedono tutte le mattina all’altezza della terza porta del primo vagone della metropolitana fino a diventare conoscenti senza nemmeno sapere il nome l’una dell’altra; buongiorno signora, come sta, e quella che è appena uscita dalla porta risponde flebile qualcosa che sembra una frase fatta, di quelle che suonano finché ci vediamo significa che va bene e poi improvvisamente scoppia a piangere, e scoppiare è l’unico verbo che ha un senso, che riesce a descrivere la forza delle lacrime che le vengono fuori dagli occhi, scusi sa, è che oggi è l’anniversario della morte della mia mamma, lo sa che si è buttata giù dal balcone, non c’è giorno che non ci pensi, non c’è giorno che questa cosa non mi torni in mente. L’altra donna riesce ad abbozzare una risposta di circostanza, dice eh lo so anche se ovviamente non lo sa, come fai a sapere, tu una madre che è salita su una sedia e si è lasciata cadere dal sesto piano mica ce l’hai, e intanto noialtri in sala d’aspetto approfittiamo del fatto che intorno alle due donne si è creata una specie di bolla e noi possiamo guardarle come se osservassimo due pesci in un acquario, curiosi che non danno fastidio perché non vengono notati. Fisso la signora che piange, penso a quanto sarebbe più comoda una vita senza memoria, proprio come si dice che sia quella dei pesci rossi, nessun ricordo, nessun dolore, nessun rimpianto, nessuna nostalgia, nessuna cattiveria, nessun abbandono, nessuna immagine che viene a trafiggerti senza preavviso mentre stai comprando mezzo chilo di pane, mentre stai sentendo senza ascoltarla una canzone alla radio, mentre stai guardando nello specchietto per passare nella corsia di sinistra. Poi sì, certo, non ci sarebbero nemmeno i ricordi belli, a qualcosa si dovrebbe pur rinunciare; ma in questo momento provo a mettere due pesci rossi al posto delle due donne in quella bolla che sta al centro della sala d’aspetto, e non riesco a immaginarmeli più infelici di così.

    16/01/2013

    Tutto, ma proprio tutto, tranne

    Filed under: — JE6 @ 12:16

    Molti anni fa al corso di Economia Aziendale ci presentarono la case history di Swatch, e ricordo bene che il professore ci disse – fra le altre cose – “guardate la genialità, trasformare un orologio in un accessorio di abbigliamento, come se fosse una cravatta o una collana”. Stamattina guardavo il nuovo sito di Milano Centrale, dove si trova tutto, ma proprio tutto, tranne le informazioni sui treni, e ho cercato di rintracciare lo stesso tipo di genialità. Senza riuscirci, ma immagino che sia un limite mio.

    12/01/2013

    Some day

    Filed under: — JE6 @ 15:04

    Ditemi che a volte succede anche a voi, di stare sul divano a leggere e intanto avere un dvd che va in sottofondo e a un certo punto sentire qualcosa che non è più un suono vago e indistinto, alzare la testa, ascoltare Bruce Springsteen che canta We Shall Overcome e poi – anni Trenta, polvere, Steinbeck, camion che arrancano*, la crisi che non finisce mai, il dare fondo a ogni energia che si ha in corpo e in testa, pure quelle che non si sapeva di avere – trovarsi lì, con i lucciconi, a provare a cantarla e non riuscirci.

    * Lo so, invece sono i tardi anni Quaranta, sono gli scioperi dell’American Tobacco Company, e poi i Sessanta e Joan Baez. Però chissenefrega, sai.

    05/01/2013

    Terza colonna da destra, il sesto dall’alto (in loving memory of Giò Giò)

    Filed under: — JE6 @ 16:40

    Ogni tanto capita, sono in macchina con un amico, metto su un cd di roba vecchia e buona, uno dei due dice ti ricordi la prima volta che l’abbiamo sentito e l’altro risponde uh sì, l’abbiamo preso da Giò Giò. Era un negozio per modo di dire, stava in via Broletto e dal marciapiede potevi vedere l’enorme murale di Armani che stava diventando parte integrante dell’arredo urbano milanese; non c’erano insegne, varcavi il grande portone di legno di uno di questi palazzi la cui bellezza può essere capita solo dai milanesi – e gli altri che s’arrangino, non ci si può prendere cura di tutte le povertà di spirito altrui -, poi passavi un cortile quadrato e andavi in fondo a sinistra, passando da una porta anonima. C’era un bancone, e dietro questo due tipi dei quali non ho mai saputo intuire l’età, e poi c’erano le pareti. Ecco, quelle pareti. Centinaia, migliaia di piccoli ganci metallici, un po’ come quelli che metti in cucina per appendere una presina o uno strofinaccio se non hai pretese di eleganza, e migliaia di bustine di plastica trasparente, su ognuna delle quali stava una piccola etichetta adesiva con un codice, dentro ognuna delle quali stava la copertina di un cd. Non ricordo più quale fosse il criterio di affissione, se alfabetico, o Italia/Resto del Mondo, o per genere. So solo che stavamo incantati davanti a quei muri per ore, a guardare copertine, a compulsare le novità, a chiederci e questi chi cazzo sono, facendo i conti di quanto avevamo in tasca, allora facciamo che io prendo questi due e tu quegli altri tre, la prossima volta tocca a me, ma io non ho voglia di ascoltare del blues africano. Poi prendevi quella bustina e la portavi al bancone e uno dei due tipi dall’età indefinibile in cambio ti dava il cd nella sua scatola, senza copertina. Pagavi il noleggio, tre giorni incluso quello di acquisto, per ogni giorno di ritardo nella restituzione qualche lira di multa. Dopo mesi riuscivi a raccattare un po’ di coraggio e chiedere a uno di quelli dietro il bancone se aveva qualche suggerimento, a me piace roba tipo Springsteen, boh, di nuovo e buono non c’è molto ma guarda che è uscito il primo da solista di Little Steven, là, terza colonna da destra, il sesto dall’alto, e poi via di corsa verso casa, rigirandosi le copertine in mano mentre la metropolitana ci riportava da Cordusio verso Bonola, con la fregola di entrare in camera e attaccare lo stereo a balla, cento watt buoni per cassa. Un giorno Giò Giò chiuse, di punto in bianco, sapevano tutti che era un’attività non esattamente legale, e via Broletto tornò ad essere solo una via del centro storico di Milano, una di quelle vie la cui bellezza – niente, ci siamo capiti. Qualcuno provò a riaprirlo in periferia, ma durò poco, e comunque Giò Giò sarebbe stato per sempre solo quello di quel cortile tra il murale di Armani e la chiesa. Non so quanti dischi ho ascoltato grazie a Giò Giò, so che dopo non c’è stato nient’altro, nessun p2p, nessun iTunes Store, niente che rendesse la scelta e l’attesa della musica bella quanto le sue pareti piene di ganci metallici, di bustine di plastica, di copertine sgualcite.