Good night
Sulla destra, rispetto all’entrata, le famiglie sudamericane preparano la giornata di festa – i tavoli, le sedie pieghevoli, un paio di ombrelloni per i più anziani, i palloni e la carne grigliata. Sulla sinistra, più in lontananza, i campi di pallavolo ricavati all’interno del parco, e la stradina che lo costeggia sulla quale passano famiglie, e pensionati, e ciclisti pigri a dieci all’ora. Di fronte, dall’altra parte della strada, il mais coltivato. D’inverno, se c’è nebbia le tombe bianche sembrano dei denti che sbucano dal terreno; quando c’è il sole, non importa la stagione, è una macchia di un verde diverso da tutti quelli che lo circondano. Ci vengo due o tre volte all’anno al Milan War Cemetery. E’ un piccolo quadrato su un lato del Parco di Trenno, curato come tutti i cimiteri di guerra del Commonwealth, con l’erba bassa e soffice, le pietre pulite, i fiori freschi. Ci sono quattrocentodiciassette tombe, più di trecento di militari inglesi, e poi canadesi, sudafricani con le scritte in afrikaans, neozelandesi, un cipriota, due italiani, due cechi. Un paio di dozzine di militi ignoti, definiti “A soldier of the 1939-1945 war”, a volte con una data di morte, per tutti la scritta “Known unto God”. Hanno qualcosa di particolare, i cimiteri di guerra. Non sono le età dei morti, anche se non puoi evitare di fermarti a immaginare la faccia di un ragazzo di diciannove anni che cade bruciato dentro un bombardiere abbattuto dalla contraerea. Sono altre cose, almeno per me. Le date, ad esempio. La gente muore tutti i giorni, si sa. Ma questi uomini sono morti quasi tutti in alcuni giorni. Chissà cosa sono stati il 12 e il 13 ottobre del 1944, ad esempio, ché tutti gli aviatori portano quelle date sulle lapidi, chissà cos’era il cielo sopra Milano. E le scritte. Non sono come tutte le altre, le scritte sulle tombe di questi posti. Ci sono, come in tutti i cimiteri, frasi che vengono dal Vangelo, e i riposa in pace (che a dirsela per bene, e a riascoltarla, è già di per sé una frase di una tenerezza quasi dolorosa: riposa, e fallo in pace. Cosa potresti augurare di meglio a qualcuno che ami?). Ma ce ne sono altre che se ti sbarazzi per un attimo dalla corazza di ironia e cinismo con la quale ci difendiamo dalla vita per quasi tutte le nostre ore da svegli non riesci a non sentirti strappare qualcosa dentro. “Hai sofferto tanto, hai avuto poche gioie, non hai meritato quel che ti è toccato sopportare”. “Ringraziamo il nostro Dio per ogni ricordo di te”. “Non ero qui per vederti morire, per sussurarti una parola o per darti un bacio di addio” (andate, e leggetela in inglese, c’è una rima, c’è una musica dentro”. Ce n’è una che mi spezza ogni volta che vengo qui, dice “Camminiamo al tuo fianco John, nel magnifico giardino dei ricordi. Buona notte” e chissà chi l’ha voluto quel “good night”, se una madre pensando alla ninna nanna che cantava a suo figlio per farlo addormentare, o una moglie che allunga la mano nel letto, lo trova vuoto e tutto ciò che può fare è accarezzare l’altro cuscino come se lì ci fosse la testa di un uomo che non tornerà più, e che ha solo bisogno di riposare, e di farlo in pace. Quando esco di solito mi riguardo intorno, prima di salire in macchina, e vedo gente, gente viva, gente che prepara da mangiare, che gioca, che parla al telefono, e mi sembra che sia la cosa giusta perché ci vuole qualcuno che a quei ragazzi faccia compagnia.