|
|
27/10/2013
Sto sul marciapiede della fila di piccoli negozi. Aspetto che il barbiere torni dalla sua pausa pranzo, apra la porta del locale, mi faccia entrare, fare quattro chiacchiere e sedere sulla poltrona per mezz’ora di taglio muto e complice, come se fosse riposo non solo per me ma anche per lui.
Appoggio le spalle alla vetrina. Alle due del pomeriggio di sabato i quartieri di periferia possono essere silenziosi come un paesino di provincia. C’è un sole caldo che se non giri il volto dopo due minuti ti senti la guancia scottare. E’ uno di quei giorni che si possono lasciare le finestre aperte, e cambiare aria senza aver freddo, illudendosi che il brutto tempo sia finito. Da una casa si sente distintamente la voce di un bambino piccolo, avrà tre o quattro anni, che gioca e ride. Solo lui (o chissà, lei), niente adulti che gli dicano di stare fermo, di stare attento, di non gridare, di non correre, di non farsi male. Poi faccio attenzione a un altro suono, viene dall’alto, sopra la mia testa, direi dal secondo piano del palazzo. Tecnicamente è un respiro, ma di certo ha un altro nome: un rantolo, forse. Un uomo anziano e malato, dai polmoni troppo stretti. Quando inspira la fatica la puoi toccare con mano, è un cigolio di ingranaggi fuori asse, molecole di ossigeno che fanno a testate per passare dalla bocca spalancata e secca alla faringe e poi più giù. E’ un rantolo ritmico che parte dal letto dove l’uomo è sicuramente steso per uscire dalla finestra e incontrare, nell’aria ferma di un sabato pomeriggio, le risate di un bambino piccolo, mentre in strada non passano macchine e sul marciapiede non passano persone.
21/10/2013
Mentre richiude il frigorifero S. mi dice “finalmente sono riuscita a trovare una confezione di latte di dimensioni umane, non i soliti barili da cinque litri”. Ci ridiamo sopra, poi parliamo di altro. E intanto collego quel piccolo particolare agli altri mille che mi ha raccontato in questi giorni, i mille dettagli che compongono il quadro della costruzione di una nuova vita in un altro paese – le scuole delle figlie, il dentista, una carta di credito, la svolta a destra col semaforo rosso, la televisione, il contratto del telefono, quello della luce, le case fatte di legno, le frasi standard dei camerieri, i farmaci da banco e un milione di altre cose scontate che sono il tessuto della vita, che spesso sono la vita e che devi prendere in mano e imparare ex novo: come se fossi un bambino, e senza avere i genitori che ti seguono e ti aiutano.
18/10/2013
Passeggiamo per downtown. Sono le undici del mattino di un venerdì di sole, e in giro non c’è quasi nessuno. Non so dire se vedere questi palazzi abbandonati, queste strade semivuote metta più rabbia o tristezza o malinconia, forse tutto insieme e in proporzioni variabili a seconda dell’umore e della scena che ti si presenta davanti agli occhi. Passiamo davanti al Comerica Park, che insieme agli altri stadi è una delle poche attrazioni residue capaci di portare gente in città – e infatti i temporary store aprono solo quando giocano i Tigers o i Lions, metti caso che dopo una birra tu voglia comprarti anche una t-shirt long sleeves. Su Monroe Street stanno abbattendo qualcosa che forse era un teatro, i colori delle insegne del Fox Theatre sembrano stinti come una camicia bagnata lasciata al sole. I marciapiedi di Woodward Avenue sono larghissimi, tutte le aiuole sono state addobbate per Halloween, ma tolta una dozzina di persone di colore ferme ad aspettare un autobus non vediamo nessuno. Ci fermiamo a guardare le vetrine. E’ strano, dico, le vetrine sono piene ma i negozi sono vuoti e chiusi. Poi capiamo. Opportunity Detroit, si chiama. E’ un programma, non se se pubblico o meno, che ha il compito di riportare in vita la città, mettendo in mostra “Detroit’s exciting present and promising future”. Una volta che ci fai caso, poi trovi il logo dappertutto, sui taxi, dove Starbucks aprirà un nuovo punto vendita, nei giornali. Nel bel mezzo delle vetrine che stiamo fissando, guarda qui dico a S., è una scritta che trovi nell’angolo destro di tutte queste lastre di vetro che vorrebbero farci comprare se solo là dietro ci fosse qualcuno a cui dare i nostri dollari, dice che i prodotti esposti sono offerti dall’azienda X e dall’azienda Y e poi da quella Z, sono messi lì non per essere acquistati ma per farci immaginare come potrebbe essere Detroit se qualcuno decidesse di tornare a viverci invece di stare a Birmingham o a Troy. Sono vetrine finte, riempite per dare coraggio disegnando un futuro simile al passato remoto. Vieni, mi dice S., andiamo verso il lago, ti faccio vedere il Canada.
Non so dove finisce, ma so dove inizia. Woodward Avenue parte praticamente in riva al lago, e poi prosegue per un numero indefinito di chilometri, anzi di miglia. Attraversa downtown passando attraverso palazzi di una bellezza architettonica abbacinante, poi inizia a tagliare le trasversali che portano i nomi delle miglia – ehi, questa è 8 Mile, è quella di Eminem giusto? – e i paesi senza un centro e poi va avanti ancora, chissà dove finisce, magari dentro al lago cento chilometri, anzi miglia più su, come un fiume dentro al mare. Passa dentro e a fianco di una quantità di storie che fai persino fatica a immaginare, la grandezza di Motor City, i disordini razziali, la migrazione di un milione e mezzo di persone in poche decine di anni. Uno stupendo cimitero ebraico, un milione di vetri rotti. S. mi fa cenno con la mano, là verso sinistra, dopo un enorme spiazzo di asfalto spezzato da erbacce e crepe, due palazzi alti forse trenta piani, e qualcuno è andato in cima, ha scritto con la vernice una lettera per ogni finestra, guarda cosa c’è scritto mi dice, io leggo, “Zombie Land”. Riportiamo lo sguardo verso la strada, tra poco ci fermeremo alla Pancakes House, è una giornata magnifica lungo Woodward Avenue.
17/10/2013
C’è molto traffico sulla highway, mi dice il tassista, così farei un’altra strada, se per lei va bene. E per me va bene, ho un po’ di tempo, basta che non rimanere imbottigliati qui. E così usciamo dalle quattro o cinque corsie dell’autostrada, ed entriamo in una Chicago che non vedrei mai se non in un caso del genere. E’ la città delle case basse, delle vie larghe con lo spartitraffico fatto da un prato lunghissimo e largo e pieno di alberi, degli scuolabus gialli, è la città che poi a un incrocio si trasforma e diventa altro senza averci fatto passare da un confine, da una dogana – ora i messicani, con il tricolore e i ristoranti e i punti esclamativi rovesciati e i colori vivi e forti, e poi i polacchi – ma quanti sono i polacchi qui? – per non so quanti chilometri potremmo essere a Varsavia, ci sono vetrine dove l’inglese non compare nemmeno come seconda lingua, qui un avvocato, lì un parrucchiere, le salsicce e la wodka, c’è persino la stessa luce piovosa che ho trovato a Stare Mesto in una sera di febbraio. La via è sempre la stessa, è eterna questa Milwaukee Avenue che prima di portarti in aeroporto ti fa fare il giro del mondo spostandoti da un isolato a quello successivo e se il semaforo è verde non te ne accorgi neanche. Dopo i messicani e polacchi arrivano degli altri ispanici, ma in mezzo c’è una casa, un tenero centro comunitario curdo, che sta da solo in mezzo a sudamericani ed est-europei e quella casa sembra l’immagine perfetta di gente che ha un destino così, ramingo e vessato e solitario. Poi Milwaukee Avenue finisce, si trasforma in qualcos’altro, e un’altra volta cambiano le case, sono altri quartieri residenziali, tutto sembra più ricco e lindo eppure un filo meno vero, come se in certi momenti fossero un certo squallore o l’apparente fatica di arrivare alla fine del mese a rendere le cose più reali, o forse solo più vicine – là dietro l’ultima rampa, riprendiamo l’autostrada, which terminal sir?
Capita a volte di incontrare persone che emanano la sensazione di poter piegare ciò che sta loro intorno senza troppa fatica, e senza fretta, senza rabbia, usando una specie di forza tranquilla, che raggiunge il suo scopo con calma, e senza versare una sola stilla di sudore. Chicago mi pare così, guardo il suo traffico regolare, i suoi palazzi austeri anche quando sono figli dell’architettura moderna, le aziende, le insegne, i parchi, i treni – sembra invincibile e predestinata, e dà persino l’idea di meritarselo, che è certo una mia fantasia, eppure.
16/10/2013
Arriviamo al McCormick dopo una camminata lunghissima. L’ultimo pezzo, una volta lasciato alle spalle il Soldiers Field, lo facciamo in riva al lago. I prati sono di un verde da montagna, e tutto il resto – il cielo, l’acqua, le biciclette, le bandiere, le barche – ha dei colori che sembrano ritoccati, come se le ultime energie fossero messe tutte lì, in un tentativo di resistenza al freddo che verrà, alla neve, alle onde che spazzeranno la spiaggia. Quando ci siamo ci accorgiamo di essere nel posto sbagliato, di essere sul lato opposto a quello dove dovremmo essere, e questo exhibition center è grande quanto una provincia, è semplicemente immenso. E allora lo attraversiamo, prima un parcheggio, poi una rampa, se giriamo da questa parte dovremmo tagliare quella strada, quella a sei corsie che gli passa in mezzo. Guardiamo le vetrate, i lampioni, le mille bandierine “We are glad you are here”, è tutto pulito ma non asettico, è tutto funzionale ma non freddo, o forse siamo solo noi che siamo di buon umore e ci va bene tutto. Giro lo sguardo verso nord, e lì vedo una bottiglia, lasciata su un muretto di cemento che regge una ringhiera metallica. Non c’è altro in giro, nessun segno di una presenza umana, niente cartacce o residui di cibo, nulla. Solo quella bottiglia vuota di Jack Daniel’s, ma vuota al punto da dare l’impressione di essere stata lavata e messa ad asciugare al sole. Mi chiedo chi l’abbia bevuta, chi sia venuto qui in un angolo seminascosto dell’East Building che in questo periodo non ospita fiere né congressi, a sedersi per terra e scolarsela fino all’ultima goccia. Chissà dov’è andato dopo, se si è sdraiato a dormire sotto gli alberi, se è tornato barcollando verso il piccolo porto che abbiamo passato una mezz’ora fa, se ha trovato la strada verso ovest che porta dentro Chinatown passando per la fermata della Red Line in ricostruzione. Chissà se ha incrociato qualcuno della security, o un visitatore in giacca e cravatta che ha sbagliato palazzo, est invece di sud. Sto un po’ a guardare quella bottiglia, la fotografo, adesso mi spieghi perché, perché cosa, perché la fotografi, non lo so, mi sembra che dica qualcosa, oddio, tu vai avanti, adesso arrivo.
15/10/2013
Ho la camera al diciottesimo piano di un albergo che sta in riva al lago, su North Lakeshore Drive, qui sotto vedo questa grande strada e le sue otto corsie che portano in giro centinaia di migliaia di persone, e i runner che si allenano lungo la spiaggia, e il Navy Pier. E poi alzo un po’ gli occhi, e là davanti c’è il lago Michigan. E sto lì, in questi giorni si vede al largo qualcosa che pare abbastanza grossa da essere una nave, sto lì a guardare questa massa infinita d’acqua – tu te lo immagini un lago lungo cinquecento chilometri e largo duecento? io no, non riesco mai a farmene una ragione -, sto lì a fissarla dall’alto, non si vedono le sponde, non se ne vede il termine, sto lì a metà dell’altezza di un grattacielo e con un lago grande quanto un nostro mare davanti agli occhi, e penso che l’America è questa cosa qui prima di tutto, che è una cosa che va oltre la comprensione e ti prende dentro, e ti porta via.
14/10/2013
E’ il giorno della maratona. Che come tutte le grandi maratone è fatta di una manciata di professionisti, quelli che corrono come motorini e arrivano in fondo in due ore e spiccioli, e decine di migliaia di amatori, gente che parte e prima o poi arriva – più poi che prima, quest’anno l’ultimo ci ha impiegato poco meno di diciassette ore, è un uomo che soffre di una malattia ai muscoli, qualcosa tipo distrofia, e ce l’ha fatta, mancava un quarto d’ora alle due di notte del giorno successivo alla partenza e gli hanno fatto una festa che era commovente quanto il suo corpo sconciato dalla malattia e dalla fatica. La incrociamo non so quante volte durante il giorno, la incrociamo lungo Michigan Avenue, e al Millennium Park e a fianco del Soldiers Field e a Chinatown e a South Wabash, dappertutto c’è gente che corre, c’è gente che zoppica dopo aver finito la gara, c’è gente che si copre dalle folate d’aria che ogni tanto ti ghiacciano le ossa in questa giornata di inattesa estate, e dappertutto c’è gente che gente che incita i runners, sono mogli, fidanzati, figli, genitori, amici: battono le mani, fanno wooooo, fischiano, fotografano, sventolano cartelli. A South Wabash ci sono due ragazze, e il pezzo di cartone giallo che tengono sopra la testa dice “per me tu sei un keniano”, e altre due hanno un rettangolino scritto a mano che dice “ci siete quasi”. La più bella è una signora vestita con una tuta che probabilmente usa in casa quando fa le pulizie, avrà una settantina d’anni, parla in spagnolo con un uomo che potrebbe essere suo figlio, si capisce che lui è arrivato da poco, è ancora ansimante ma non sembra sofferente. Sotto il braccio anche lei ha un cartello, come migliaia di altri spettatori e fan. “Te quiero”, c’è scritto, e secondo me adesso glielo sta dicendo a voce.
E’ la terza volta che vengo a Chicago. L’ho vista con la neve, il sole, la pioggia, l’ho vista da solo e in compagnia. L’ho vista poco dopo che a New York avevano tirato giù le torri gemelle e poco prima che crollasse Lehman Brothers, l’ho vista cambiare e l’ho trovata uguale a se stessa. Ogni volta sono andato a cercare cose nuove e le ho trovate, ogni volta sono andato a ritrovare ciò che conoscevo ed era ancora lì. Eppure, in fondo, la mia Chicago – ognuno ha una sua città, che ha le stesse vie degli altri eppure è diversa e unica – è e credo sarà sempre la macchina di Jake e Elwood che schizza sotto la sopraelevata del Loop e Michael Jordan che schiaccia a canestro, e le forme di Susan Lewis sotto il camice del pronto soccorso di ER. Si chiama imprinting, credo, è ciò che vedi una volta, all’inizio, e non ti lascia più il cervello e la memoria: e non vuoi che vada via.
|
|
|