Greetings from Chicago 2013 – Te quiero
E’ il giorno della maratona. Che come tutte le grandi maratone è fatta di una manciata di professionisti, quelli che corrono come motorini e arrivano in fondo in due ore e spiccioli, e decine di migliaia di amatori, gente che parte e prima o poi arriva – più poi che prima, quest’anno l’ultimo ci ha impiegato poco meno di diciassette ore, è un uomo che soffre di una malattia ai muscoli, qualcosa tipo distrofia, e ce l’ha fatta, mancava un quarto d’ora alle due di notte del giorno successivo alla partenza e gli hanno fatto una festa che era commovente quanto il suo corpo sconciato dalla malattia e dalla fatica. La incrociamo non so quante volte durante il giorno, la incrociamo lungo Michigan Avenue, e al Millennium Park e a fianco del Soldiers Field e a Chinatown e a South Wabash, dappertutto c’è gente che corre, c’è gente che zoppica dopo aver finito la gara, c’è gente che si copre dalle folate d’aria che ogni tanto ti ghiacciano le ossa in questa giornata di inattesa estate, e dappertutto c’è gente che gente che incita i runners, sono mogli, fidanzati, figli, genitori, amici: battono le mani, fanno wooooo, fischiano, fotografano, sventolano cartelli. A South Wabash ci sono due ragazze, e il pezzo di cartone giallo che tengono sopra la testa dice “per me tu sei un keniano”, e altre due hanno un rettangolino scritto a mano che dice “ci siete quasi”. La più bella è una signora vestita con una tuta che probabilmente usa in casa quando fa le pulizie, avrà una settantina d’anni, parla in spagnolo con un uomo che potrebbe essere suo figlio, si capisce che lui è arrivato da poco, è ancora ansimante ma non sembra sofferente. Sotto il braccio anche lei ha un cartello, come migliaia di altri spettatori e fan. “Te quiero”, c’è scritto, e secondo me adesso glielo sta dicendo a voce.