Suoni
Sto sul marciapiede della fila di piccoli negozi. Aspetto che il barbiere torni dalla sua pausa pranzo, apra la porta del locale, mi faccia entrare, fare quattro chiacchiere e sedere sulla poltrona per mezz’ora di taglio muto e complice, come se fosse riposo non solo per me ma anche per lui.
Appoggio le spalle alla vetrina. Alle due del pomeriggio di sabato i quartieri di periferia possono essere silenziosi come un paesino di provincia. C’è un sole caldo che se non giri il volto dopo due minuti ti senti la guancia scottare. E’ uno di quei giorni che si possono lasciare le finestre aperte, e cambiare aria senza aver freddo, illudendosi che il brutto tempo sia finito. Da una casa si sente distintamente la voce di un bambino piccolo, avrà tre o quattro anni, che gioca e ride. Solo lui (o chissà, lei), niente adulti che gli dicano di stare fermo, di stare attento, di non gridare, di non correre, di non farsi male. Poi faccio attenzione a un altro suono, viene dall’alto, sopra la mia testa, direi dal secondo piano del palazzo. Tecnicamente è un respiro, ma di certo ha un altro nome: un rantolo, forse. Un uomo anziano e malato, dai polmoni troppo stretti. Quando inspira la fatica la puoi toccare con mano, è un cigolio di ingranaggi fuori asse, molecole di ossigeno che fanno a testate per passare dalla bocca spalancata e secca alla faringe e poi più giù. E’ un rantolo ritmico che parte dal letto dove l’uomo è sicuramente steso per uscire dalla finestra e incontrare, nell’aria ferma di un sabato pomeriggio, le risate di un bambino piccolo, mentre in strada non passano macchine e sul marciapiede non passano persone.