Con un mazzo di rose, davanti ai Bagni Tina
Piazza del Popolo è piena di gente, alle sette di sera. I capannelli al piede dei portici, i clienti che scelgono tra miele di castagno e di acacia, lo struscio davanti ai negozi di scarpe. Un formicolio non frenetico, senza l’allegria minacciosa della Romagna che sta a due passi, come se attraverso il mare e le colline ci fosse davvero un confine che nessuno vede, nessuno sente e tutti percepiscono. Non so cosa succede in quelle due ore durante le quali mi siedo sotto una volta di legno a mangiare, so che quando ripasso sotto l’arco che mi riporta nel grande rettangolo della piazza tutto ciò che è rimasto è la fontana. Non c’è più nessuno, non una sola persona da lì, lungo via Rossini e fino al mare, ci sono solo le luci, identiche a quelle di prima, luci non ricche ma benestanti: ma non un’anima viva, una mano di Photoshop e via, sono rimasti solo i palazzi, e le ville, e gli alberghi squadrati. A gelare guardando il nero del mare siamo rimasti io, una ragazza con un cappello di lana calcato sulla fronte e un signore che porta in giro il cane. Pesaro alle nove di sera di un venerdì di dicembre è gente che non senti più, telefonami tra vent’anni, è negozi che aspettano il giorno dopo, è un caffè con i tavoli rossi, e un ragazzo indiano con un mazzo di rose, che fermo davanti all’ingresso dei Bagni Tina guarda dentro, al di là delle vetrate di un ristorante, senza dire una parola, lontano mille miglia.