Bamboo
E’ mezzogiorno. Sto seduto in una poltrona della grande hall dello Slovenijales, dopo quarantacinque minuti secchi di riunione per i quali ho viaggiato sei ore e lavorato undici mesi. E’ in quel momento che mi passa davanti agli occhi l’immagine del venditore di succo di bamboo che ogni giorno si ferma davanti al 400 di Zhejiang Middle Road da mezzogiorno alle sette di sera. Vai a sapere perché mi viene in mente questa cosa, ma lo so che nulla è per caso, e che se non sei tu ad andare dai simboli sono loro a venire da te, basta saperli vedere, basta avere voglia di aspettarli. Il bamboo. Quante impalcature fatte di quel fusto sghembo e nodoso ho visto nei mesi passati a Shanghai. Ci fanno pure le fondamenta dei palazzi, e dei grattacieli, lo usano come noi facciamo con il metallo che innerva il cemento armato. E’ forte, resistente, ed elastico. Si piega ma non si spezza. Si aggiusta, si adegua, e poi si raddrizza. E’ paziente il bamboo, viene sommerso dalle acque, portato verso il fondo dalle onde, e poi riemerge – le gocce scivolano verso il basso, e quando torna il sole la sua superficie liscia splende di un colore bruno e caldo. Mi rendo conto di aver conosciuto il bamboo in un anno nel quale mi sono servite e ho coltivato le sue doti, anche quando non me ne rendevo conto, anche quando mi pareva che non ne valesse la pena, anche quando la fatica era solo e semplicemente troppa. E adesso, mentre guardo il cielo grigio di Ljubljana e i muri tinti di fresco di questo enorme salone e l’incongruo toro di metallo che scimmiotta Wall Street non so dire se, appunto, ne sia valsa la pena. So che I got a job to do, e non era, non è solo lavoro, è qualcosa di più, di più grande e vasto, è stare in piedi, o provarci quantomeno per tigna, in modo anche insensato perché il senso alla fine sta in quella piccola, fugace vittoria che ogni tanto capita di conquistare, quella vittoria che come in questo istante meriterebbe di essere festeggiata con un brindisi, un bicchiere di qualcosa di buono – di succo di bamboo.