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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    31/03/2014

    Bioritmi

    Filed under: — JE6 @ 07:45

    A volte sono piccoli e apparentemente insignificanti dettagli a dirti la verità. Ieri sera, contravvenendo a una regola di vita che mi sono dato nell’ultimo paio d’anni e che rispetto con un discreto rigore, mi sono messo ad ascoltare un politico in televisione – nella fattispecie Graziano Delrio, il braccio destro del nuovo PresDelCons. Uno tosto mi sembra, uno che se gli chiedono “è vera questa cosa che si legge sui giornali” risponde “no” con un tono da cella frigorifera e pare che voglia dire “andiamo avanti e non perdiamo tempo con queste cazzate”, e senza dire per piacere. Ma c’è il momento in cui Fabio Fazio gli chiede della riforma del Senato, del perché e del percome e lui risponde dicendo “la classe politica merita rispetto”, poi fa una brevissima pausa come a cercare parole che di solito gli vengono facili alle labbra e già quella pausa sembra uno di quei piccoli e apparentemente insignificanti dettagli che dicono la verità, e poi riprende, e ripete “la classe politica merita rispetto” e allora so che sta per dirlo, lo guardo come si guarda un disastro incipiente e inarrestabile, e infatti lo dice, dice “quando è in sintonia con gli umori dei cittadini”. Ed eccola la verità, che è quella di una classe dirigente che si fa guidare da coloro che deve dirigere come un qualsiasi Vito Crimi: e nemmeno dai cervelli, ma proprio dagli intestini, dagli stomaci, dagli sfinteri; dagli umori. Per un momento mi chiedo che vita faccia Delrio per dire una cosa del genere, perché a vederlo sembra uno di noi, uno qualunque, uno come tutti, uno che passa attraverso incazzature e delusioni, gente che mette il muso o che sbrocca o che si chiude nel silenzio e tu non sai più che dire e fare, lacrime e risate, uno che sa – come tutti – che gli umori ti annebbiano la vista e la ragione. Delrio dice quella parola con l’unico lievissimo tremito di tutta l’intervista, una cosa da niente: e che dentro ha tutto, o almeno molto: inclusa la sconfitta di chi si mette comodo sul divano, in attesa che la prossima riforma venga scritta compulsando una tabella di bioritmi, per essere in sintonia con la natura.

    29/03/2014

    Per una settimana

    Filed under: — JE6 @ 09:16

    Il ragazzo chiese all’uomo se andava tutto bene, e se aveva bisogno di aiuto. Lo fece prima nella sua lingua, poi in inglese. L’uomo gli rispose con un sorriso storto, disse che era tutto a posto e fece finta di cercare qualcosa nel piccolo zaino che gli stava appoggiato a una gamba. Guardò il tabellone degli orari delle partenze, pensando che otto binari erano davvero pochi per la stazione centrale di una capitale. Sentì l’ennesima fitta di dolore attraversargli il corpo, la sentì partire senza sapere da dove e la sentì arrivare, lenta, al cervello, alle spalle, ai piedi. Trattenne il respiro, chiuse gli occhi, li riaprì e fece un altro sorriso di scuse e noncuranza al ragazzo che continuava a guardarlo. L’uomo cercò con gesto meccanico il telefono in una delle tasche della giacca impermeabile che aveva comprato appositamente per il viaggio. Aveva pensato di farsi un’attrezzatura completa, ma quando si era visto nello specchio del camerino di prova del magazzino di articoli sportivi si era trovato triste e ridicolo; così si era limitato a comprare quella giacca, per il resto si sarebbe arrangiato con jeans e scarponi vecchi accatastati in qualche armadio del suo appartamento. Per una settimana sarebbe stato tutto più che sufficiente. Era partito in fretta e furia, quando i dolori erano diventati così frequenti da essere l’unica cosa che sentiva, perché temeva che quella sarebbe stata la sua ultima occasione. Rimandava quel viaggio da molti anni, dicendosi che c’era tempo, che l’occasione giusta sarebbe arrivata; guardando il binario ancora vuoto si disse che non era questa l’occasione che si era immaginato, ma se era l’ultima non c’era troppo da discutere, si sarebbe accontentato. Quando il tabellone degli orari si riempì con le informazioni che ancora mancavano l’uomo raccolse il piccolo zaino da terra e se lo mise in spalla, chiedendosi se quel che stava facendo aveva un senso, e quanto poteva apparire patetico agli occhi del ragazzo che gli aveva chiesto se andava tutto bene. Questo lo vide incamminarsi, cercò di ricordarsi le parole inglesi per augurare buon viaggio e si allontanò.

    24/03/2014

    Contrappassi

    Filed under: — JE6 @ 14:04

    La tentazione di maramaldeggiare è una piccineria seconda solo al maramaldeggiare vero e proprio, una cosa da mi pento e mi dolgo e poi dieci pateravegloria. Epperò io a leggere un pezzo come questo di Vittorio Zambardino e non pensare chi di Cluetrain Manifesto ferisce eccetera proprio non ce la faccio.

    23/03/2014

    E ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi

    Filed under: — JE6 @ 14:24

    Domani mattina ti faccio sapere, dice. Va bene, grazie – passa la mattina, poi il pomeriggio, poi la notte e un altro giorno. Mi dite quando abbiamo fatto quel pagamento, chiedo. Nessuna risposta. Per piacere mi dite quando abbiamo fatto quel pagamento, richiedo. Ieri. Va bene, grazie, mi mandate gli estremi che li devo girare a mia volta – passa la mattina, poi il pomeriggio, poi la notte e un altro giorno. E così, troppe volte al giorno, per troppi giorni. E sarà che ho un brutto carattere, ma il mio grado di sopportazione di questo modo di fare, che è sempre stato basso, si avvicina sempre più, e sempre più velocemente allo zero Kelvin. Non che cambi qualcosa, gran parte del mondo se ne fotte allegramente (e, da un certo punto di vista: come dargli torto) e va avanti. Ma è il come andiamo avanti, ecco. Dice eh ma sei tu che sei paranoico, cosa pretendi, vivi e lascia vivere. Vero, ho solo questo piccolo, stupido puntiglio che se mi scrivi ti rispondo, se ti scrivo mi aspetto una risposta – partendo dal presupposto che parliamo di argomenti che per necessità, opportunità o cortesia quella risposta la includono nel pacchetto. Piccolo, stupido puntiglio che si allarga ad arrivare puntuali ad un appuntamento, ad avvisare se si è in ritardo anche di soli dieci minuti, a quel minimo sindacale di buona creanza e di rispetto degli altri che consiste nel prendere in considerazione l’ipotesi che le tue priorità non siano le uniche esistenti al mondo e a fare quindi silenziosamente in modo che quelle altrui valgano quanto le tue. Poi d’accordo, non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno e quindi ci si acconcia a tutto, anche a sopportare quelli che ci fosse una volta che questo treno arriva in orario e non rispondere eh sì, a proposito, quand’è l’ultima volta che sei arrivato puntuale a un aperitivo?

    (Che poi il fatto è questo, è il tipo di cura che ci vuole anche al di fuori delle dieci ore lavorative giornaliere, sì lo so che sono tre mesi che non ci sentiamo ma sai ho un sacco di cose da fare, è vero che scrivere un banale ciao come stai sai che domani vado a vedere una mostra splendida chissà che casino con lo sciopero dei mezzi, una roba che puoi fare anche scendendo le scale mentre vai a prendere il caffè al bar sotto l’ufficio è proprio una cosa da nulla ma sai ho un sacco di cose da fare, un sacco di pensieri, te l’ho detto no)

    22/03/2014

    Squadra Rialzo Milano Centrale

    Filed under: — JE6 @ 21:05

    Tu che puoi, che stai lì, facci un salto – dice un amico che ha pure lui questa passione, quella dei treni e delle stazioni e del mondo che gli gira intorno, e gli viaggia sopra e dentro. E io che posso, che sto lì, ci faccio un salto alla vecchia Officina Veicoli di Milano Centrale, dove si metteva mano a tutto ciò che faceva un treno, i freni, i sedili, le tappezzerie, i lavandini, le viti, i tergicristalli, tutto. Amo i treni da quando salivo con mia mamma sul diesel che attraversava la Sardegna andando da Porto Torres verso Cagliari, e mi facevo venire un mal di testa da ubriaco assecondando gli scossoni della littorina che da Nuoro andava a Macomer; e poi c’è stata l’estate più bella della mia vita, quella dell’InterRail. Amo l’odore della ferrovia, che è fatto di cose alle quali non so dare nome, e amo i finestrini grandi che mi fanno guardare fuori, e amo il ferro e l’elettricità e i suoni e il microcosmo che si crea in un vagone. Quando sono uscito e ho rimesso piede sul marciapiede di viale Monza mi è tornato in mente un piccolo pezzo che mandai al defunto “Diario della settimana”, pubblicato all’inizio del 1999 in uno speciale dedicato alle stazioni ferroviarie. Sono andato a cercarlo, e lo metto qui mentre penso a un viaggio che prima o poi farò, zaino in spalla e jeans, a cercare il ragazzo che dormiva sull’asfalto del piazzale della stazione di Copenhagen.

    Andavamo alla stazione di Malles Venosta durante alcune domeniche di libera uscita, quando non avevamo né tempo né soldi per tornare a Milano. Funzionava solo un paio di mesi all’anno; per il resto, passava la sua vita nella totale inattività, aspettando i treni dell’anno successivo e accogliendo gente che, come noi, amava i luoghi desolati e abbandonati. Era tutto come nei film: porte che sbattevano, finestre rotte, sterpaglia tra i binari, e tutto intorno una sensazione di morte sonnolenta. Noi entravamo, ci sedevamo sotto il porticato, e dimenticavamo il rumore dei sergenti maggiori, degli alzabandiera e dei carri armati. Leggevamo lo scarno orario delle partenze e degli arrivi, tiravamo qualche sasso, disegnavamo la faccia del telegrafista e del capostazione. Era bello. Almeno per noi. Ci tornammo alla vigilia del congedo; su un foglio a quadretti, una mano teutonica avvisava che l’indomani due treni avrebbero ripreso a funzionare. C’era chi arrivava, c’era chi partiva. Noi, quei treni, li avremmo solo immaginati.

    19/03/2014

    In fondo alla navata

    Filed under: — JE6 @ 14:30

    Ha il fisico tozzo dei vecchi contadini lombardi, stretto nella divisa di custode di quella grande chiesa che si va riempiendo velocemente. Avrà poco più di sessant’anni, le guance piene e cadenti di uno che da quando ne ha avuto la possibilità non ha mai smesso di compensare la fame atavica dei suoi nonni, e ancora di più la sete. Smista le persone che avanzano lungo la navata con gesti secchi e uno sguardo duro, quello che probabilmente indossa quando entra in casa, quando si fa passare la bottiglia, o il sale. Continua così per molti minuti perché i ritardatari non mancano mai, per ciascuno un libretto ben stampato e la mano che indica una panca. Poi arriva un momento nel quale tutti sembrano essere al loro posto, le voci bianche portano una musica antichissima fino in cima alle colonne di marmo, quelle delle quali non si vede nemmeno la fine persa nel buio gotico, e c’è un’atmosfera che nessuno sa definire, e in quel momento, quando non deve più guardare nessuno e nessuno deve guardare lui appoggia le spalle al marmo, e poi la nuca, e punta gli occhi verso l’alto, verso un punto indefinito, e muove le labbra come se stesse parlando a qualcuno, le muove appena appena come le donne anziane che recitano una preghiera, come un bambino che sillaba le parole che legge, in quel momento sembra debole, stanco e indifeso come nessuno lo vede mai, come non si fa vedere mai da nessuno. E’ un momento talmente breve da sfuggire a quasi tutti, così breve che lui stesso lo nasconde e dimentica passandosi una mano sul viso come a togliere una pellicola, o ad alzare una serranda.

    15/03/2014

    Un’altra vita, una vita fa

    Filed under: — JE6 @ 14:31

    Stamattina ho fatto un giro nella Chinatown milanese. Sono andato per un motivo specifico – cose di telefoni -, ho fatto quel che dovevo fare e poi mi sono perso a guardare i cartelli con gli ideogrammi, le foto della Grande Muraglia, i cibi, le facce, e mi sono reso conto che esattamente un anno fa vivevo a Shanghai, ero lì da un mese, giravo per un parco di West Beijing Road andando verso lo Huangpu River e un po’ mi è parso di essere ancora lì, e un po’ mi è parsa un’altra vita, una vita fa.

    08/03/2014

    Sometimes

    Filed under: — JE6 @ 12:01

    Ogni tanto mi passa sotto gli occhi una vecchia foto, scattata sulla Strip di Las Vegas. E’ un locale, un bar sul lato del Bellagio. C’è il sole, come sempre, ci sono i clienti con gli occhiali scuri, come quasi tutti. C’è un cartello – cioè non è proprio un cartello, è una scritta fatta con quei sottili tubi fluorescenti, le lettere tutte collegate l’una all’altra – che dice “Waitress available sometimes”. Una di quelle cose che posti così fanno per risultare simpatici, perché poi figurati se proprio lì una ragazza ti fa aspettare più di dieci secondi per dirti se ci sono tavoli liberi, how are you doing today, cosa vuoi da bere?
    Ogni tanto mi passa sotto gli occhi quella foto, e quelle due parole – available sometimes. Che è una cosa che succede tutti i santi giorni, aspettarsi che questa o quella persona sia disponibile, contare sul fatto che ci sia. Darlo per scontato. E’ solo che non funziona così, perché tutti scompaiono, mancano, si allontanano, tutti hanno il diritto e persino il dovere di farlo, colleghi, amici, chiunque; e il problema non sono loro, il problema è che quel diritto è pure tuo – è un diritto/dovere di tutti –  e così ci sono quei periodi o quegli ambienti che sometimes non ci sei tu e sometimes non ci sono io e sometimes non ci sei tu e sometimes non ci sono io come calendari fuori sincrono, come gente su fusi orari diversi, poi ti fermi a bere un caffè e ti rendi conto che la baracca, semplicemente, non sta in piedi, non può stare in piedi così e che bisogna fare qualcosa, come provare a togliere quel sometimes ma pure quello non funziona, non regge, non è nemmeno giusto. Vieni, accomodati, lo so che il tuo collega è andato in ferie ma va bene, quel tavolo d’angolo è libero, cosa ti porto da bere.

    01/03/2014

    La musica di N.

    Filed under: — JE6 @ 10:21

    N. ha vent’anni e suona la chitarra da dio. Ha il suo gruppo, va orgoglioso del loro primo disco, cerca i locali dove suonare la sera.E’ bravo, sente la musica “dentro”, ne ascolta tanta, la studia, ci vive per. Ogni tanto mi chiede qual è il mio assolo preferito, o il mio disco del cuore, o se quel certo chitarrista mi piace. Io gli rispondo, lui a volte concorda, più spesso mi dice sì ma, e mi cita sempre qualcun altro, qualcos’altro, mi parla della perfezione della diteggiatura, della tecnica sopraffina. Io che, sarà l’età, sarà che sono tenero di mio ma ormai mi commuovo anche con certi finali dei Maghi di Waverley, gli dico che probabilmente un giorno se ne renderà conto anche lui che la buona musica non ha a che fare con la bravura, che di sicuro di chitarristi migliori di Dave Gilmour ne trovi a decine ma se quando parte il secondo assolo di Comfortably Numb ti senti dentro qualcosa che non sai nemmeno spiegare allora quella è buona musica e se questo succede ogni santa volta che ascolti quella canzone allora quella è grande musica, che se i Clash non erano certo dei virtuosi ma milioni di ragazzi come lui andavano in strada cantando London Calling allora quella era vera musica, gli dico queste cose e lui mi guarda e scuote la testa come tutti quelli che credono di aver visto la luce, ancora pieno di quel sicuro e vagamente fastidioso fanatismo degli adepti, mi ripete le lezioni del suo maestro – che io non conosco di persona, ma del quale ho molto sentito parlare, e so che anche lui sta aspettando il momento in cui N. una sera salirà sul palco e senza nemmeno sapere né come né perché si troverà a suonare non per se stesso nella ricerca dell’assolo perfetto, ma per quelli che gli staranno di fronte, per i loro occhi gonfi, per la loro felicità.