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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    29/04/2014

    Ci vuole un fisico bestiale

    Filed under: — JE6 @ 16:52

    Che poi io son convinto che un giorno da Berlusconi dev’essere faticoso, ma anche solo dodici ore da Brunetta devono essere devastanti.

    26/04/2014

    Greetings from Sheffield – Green door, Row F, Seat 1 (un pomeriggio al Crucible)

    Filed under: — JE6 @ 20:01

    E quando mi sono seduto in mezzo a signore dai capelli argentati ed energumeni appena tirati fuori da un pub, quando ho avuto il verde del tavolo così vicino che mi pareva di poterlo toccare e ho guardato prima Ali Carter e poi Mark Selby chinarsi per iniziare una partita che sarebbe andata avanti per otto ore lungo due giorni, quando ho sentito il suono della stecca che colpiva la biglia – uno dei pochi suoni che potrei riconoscere ovunque, a occhi chiusi -, in quel momento ho capito perché amo lo snooker, lo amo perché all’inizio sembra tutto in ordine, con le biglie rosse chiuse in un triangolo perfetto e quelle colorate al loro posto sugli spot, e poi bastano due tiri e tutto si incasina, a volte le macchie di colore si sparpagliano su quel tavolo enorme e sembrano lontanissime e irraggiungibili, altre volte se ne stanno attaccate a gruppetti come ragazzine di tredici anni e sembra non esserci verso di staccarle, e ci sono quelle che si isolano e si attaccano a una sponda, quelle che hanno i rimpalli maligni che ti rimandano lontano e insomma per alcuni lunghissimi minuti la sola cosa che hai in testa è cercare di capire come venirne fuori senza troppi danni e ti pare di non avere speranza e a volte è proprio così, non c’è speranza, non ce la fai, altre volte invece con un misto di pazienza e fortuna e bravura e errori altrui ce la fai, ce la fai mandando in buca una rossa dopo l’altra, e una colorata dopo l’altra anche se queste ritornano sul tavolo a darti fastidio, ce la fai pensando al tiro che stai per fare e a quello che verrà dopo e forse anche a quell’altro perché non puoi vivere completamente alla giornata, ce la fai facendo spazio, facendo pulizia – dicono proprio così, cleaning the table – e alla fine vinci facendo il vuoto e quello che rimane è un prato verde, vuoto, e libero, e forse in quell’aver spazzato via tutto (e in quell’essere stati spazzati via del tutto, quando le cose non sono andate per il verso giusto) c’è una delle lezioni di questo gioco magnifico, e di questo pomeriggio al Crucible.

    25/04/2014

    Greetings from Leeds 2014 – Di bocca buona

    Filed under: — JE6 @ 17:57

    Non so se sono di bocca buona, se sono uno di quelli che dove li metti sta, so che torno in questo posto che alla fine non ha niente di speciale, non va sulle guide turistiche, e ci sto bene, sto bene all’Horse and Trumpet a bere birra al banco insieme a una signora che ha conosciuto tempi più felici e ride quando mi vede trafficare con le monete per pagare il conto, sto bene sul ponte illuminato da luci violette che porta alle case di mattoni rossi sui canali di Navigation Walk, sto bene guardando la scritta rossa in cima alla fabbrica della Tetley’s – tutte cose che ho visto e rivisto e sì, certo, mica mi dispiacerebbe essere a Barcellona o Berlino, epperò la campagna dello Yorkshire vista dai finestrini del TransPennine Express, devo essere proprio di bocca buona, o devo avere bevuto troppo, perché in fondo non avrei tutta questa voglia di fare a cambio.

    Greetings from Leeds 2014 – Al sole

    Filed under: — JE6 @ 17:44

    Bring on a coat, mi scrive Martin. Lo faccio, e mi servirà; ma a metà mattina, mentre cammino dalla stazione verso il palazzo di vetro dove passerò il resto del giorno, splende il sole. E allora come ogni volta che vengo al nord – non importa dove, Germania, Gran Bretagna, Slovacchia – mi sento un po’ come il Totò che insieme a Peppino arriva a Milano, io con il mio giubbotto leggero che guardo la gente che affolla i marciapiedi come lucertole che hanno aspettato il caldo troppo a lungo, tutti con un mezzo sorriso, un po’ beato e un po’ incredulo, e se non mi stessero aspettando mi fermerei a fare due chiacchiere con qualcuno, darei un cinque a questo ragazzone che sembra preso da Point Break e gira con le infradito, anche se non fumo chiederei una sigaretta a questa ragazza bionda dalle braccia tornite che tira le ultime due boccate seduta su un muretto davanti all’ingresso di una charity vestita di una tshirt azzurra che pare fatta di carta velina, starei lì, a capire cos’è la primavera, perché noi in fondo non lo sappiamo, non come loro.

    22/04/2014

    Transistor

    Filed under: — JE6 @ 15:19

    Tra la casa di mia nonna e quella di mia zia c’era una piccola via, una carrela come dicevano loro, lunga forse trenta metri. E per quanto fosse corta, questa via riusciva a fare una curva a gomito all’altezza del quale c’era una porta che per me dava sul nulla: era rossa, era sempre aperta e l’interno era un buco nero, dal quale non veniva fuori la luce di una lampada o di un televisore ma il suono di una radio. Quella specie di caverna era abitata da uno di quei personaggi che in città sarebbero stati dei barboni ricoverati sotto un ponte e che in paese erano invece semplicemente dei tipi un po’ tocchi da non disturbare. Penso di averlo visto una decina di volte in tutto, non riesco nemmeno a ricordarne il volto. Ma tutti sapevano che passava il suo tempo seduto vicino a una radio, e lo sapevo anch’io. Ascoltava stazioni misteriose: Praga per mia nonna era come il Borneo di Sandokan per me. Aveva un grosso apparecchio a transistor, di quelli che oggi si trovano in certi ristoranti che vogliono farsi chiamare trattoria e avere l’aspetto vintage. Quando ne vedevo uno restavo minuti interi a leggere i nomi di posti che chissà cos’erano, chissà dov’erano. Monte Ceneri, Beromünster, Bratislava. Qualcuno di questi poi sono riuscito, molti anni dopo, a capire cos’era, a vedere dov’era; molti altri invece sono rimasti dei puntini su un atlante o sullo schermo di un computer, e quando li vedo sento ancora i crepitii di quella radio sepolta nel buio, e penso che io di aerei ne ho presi tanti, ma quel contadino sardo, quel tipo un po’ tocco dal quale noi bambini era meglio se stavamo lontani, aveva viaggiato molto più di me.

    18/04/2014

    Vivere per raccontarla

    Filed under: — JE6 @ 07:30

    Avevo quindici o sedici anni la prima volta che ho preso in mano un libro di Gabriel Garcia Marquez, e da allora ho perso il conto di quante volte ho riletto Cent’anni di solitudine e Nessuno scrive al colonnello e la più bella storia d’amore di carta che io conosca – L’amore ai tempi del colera – e i racconti di Erendira e della sua nonna snaturata e tutto, tutto il resto. Ognuno ha le sue fissazioni, e i suoi amori: anche quelli che in società a un certo punto diventano quasi imbarazzanti, ma per piacere, Marquez, quello che fa ascendere le donne in cielo in mezzo a una nuvola di farfalle gialle, quello dei soli superlativi, ma hai presente DeLillo. Beh, chissenefrega. Per me Garcia Marquez è stato un sacco di cose, tutte belle e molte importanti; alla fine è stato quello che ha scritto la frase lapidaria che dieci anni fa ho messo come sottotitolo di questo blog – La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla – una frase che sembra l’esempio perfetto di quanto uno scrittore famoso possa tirarsela per giustificare il proprio stare al mondo e che invece è una delle poche verità che credo di avere imparato attraverso migliaia di prove quotidiane, l’ultima giusto un paio di giorni fa. E così Gabriel Garcia Marquez mi mancherà, mi mancherà come mancano le persone alle quali hai voluto tanto bene e hai continuato a volergliene, forse persino di più, quando le hai viste e sentite lontane, mischiate alle cento altre che si sono aggiunte a riempire la vita da sveglio; e non ho imbarazzo a dirlo: la vita è quella che si ricorda, i miei ricordi di lui sono tutti belli, e allora, ecco, ci siamo capiti.

    13/04/2014

    Come in un duello

    Filed under: — JE6 @ 12:28

    Il gruppo di uomini si incammina lentamente verso la piccola chiesa in pietra che per tanti anni hanno visto chiusa, e che di lì a poco ospiterà un matrimonio. Parlano di lavoro, macchine, vacanze, calcio, genitori che invecchiano, chili di troppo. Nel parcheggio rimane un uomo che cura il pentolone sul fuoco. Guarda il rettangolo di asfalto rugoso, un parcheggio di montagna del quale conosce ogni centimetro. Socchiude gli occhi, rivede fantasmi e ricorda suoni, tutti lì in quei duecento metri quadri che si accavallano come esposizioni multiple della stessa fotografia. Si volta a controllare quanto manca alla bollitura dell’acqua della pasta, si versa un bicchiere di rosso. Quando si gira vede, all’estremo opposto del parcheggio, quello dove non si doveva tirare troppo forte perché altrimenti il pallone sarebbe caduto fino alla pianura come una slavina inarrestabile, una macchina grigia. Vede anche scenderne una donna, elegante in un tubino che potrebbe essere lilla, o blu, o viola – i maschi non sanno dare i nomi ai colori, e il sole gli fa stringere gli occhi, gli sfuoca la vista. La guarda, vede i capelli neri lisci che cadono sulle spalle, le scarpe e la borsetta e un bracciale sul polso destro che sembrano essere dello stesso colore dell’abito. Potrebbe essere un’invitata al matrimonio, ma a lui pare di conoscerla. Lei si gira verso di lui, lo guarda, ma è troppo lontana perché si possa decifrare il piccolo movimento delle labbra sottili che a lui sembra di intuire. Per pochi eterni secondi si guardano, distanti e diversi, come in un duello di un film, lei irreale come i fantasmi che pochi minuti prima popolavano il parcheggio. Quando chiude la portiera della macchina e muove il primo passo per andarsene lui muove la bocca per dirle qualcosa; ma non sa cosa dire.

    09/04/2014

    Bene, grazie

    Filed under: — JE6 @ 17:24

    E’ una banale, semplice mail di lavoro che arriva dalla Germania, una persona che conosco da tanti anni e che non sentivo da un paio. Hi, I hope life is treating you well, dice. E io resto lì a guardare quelle otto parole che mi sembrano, non so perché, molto più di quello che sono – un saluto fatto con l’ironica padronanza della lingua che solo gli inglesi di buona cultura hanno – e so che risponderò quel che va risposto – Hi Helen, I’m fine. Bene, grazie.

    07/04/2014

    Con ‘sto caldo

    Filed under: — JE6 @ 07:34

    Dunque vediamo, beh certo sì, numero uno la tripletta di Destro, anvedi, ammazza, poi senza dubbio la Ferrari che dai, ma ti pare, ma un triciclo da bambini proprio, e poi, mah secondo me gli danno i servizi sociali così continua a fare quello che je pare hai letto la Milella no?, e poi uhm, ah sì, madonna cos’ho mangiato e bevuto ieri non ci puoi credere mi sono proprio sfondato, e poi abbiamo saltato l’inverno e pure la primavera, è già estate, beh alla fine un cambio stagione in meno e poi… e poi… oddio cosa mi fai tornare in mente, ma davvero, l’Ucraina, le forniture di gas, la marina russa, la guerra fredda, ma che è successo poi, ma quant’è passato, un anno? comunque se torna la guerra fredda con ‘sto caldo buttala via ah ah ah.