Cinque vasi e uno sgabello
Come si scordano in fretta le cose, l’anno scorso mi cercavo immagini per descrivere Detroit ed erano tutte olocausti nucleari, bombe H, alieni, quando sarebbe bastato ricordare L’Aquila vista un anno dopo il terremoto in una deviazione tra Teramo, Tivoli e una via dalle parti di Castro Pretorio.
C’è qualche impalcatura in meno oggi, e ci sono un paio di bar aperti in più lungo il corso che porta al Duomo. Su un balcone sono rimasti cinque vasi e uno sgabello, un fermo immagine che ti porta indietro di cinque anni secchi. Non ci sono le divise dell’Esercito, le ricorda una scritta su un telo bianco all’ingresso della Zona Rossa, “mi mancano i militari”, dice. E non c’è più l’atmosfera di tragedia, la sensazione di dolore e compassione, ci sono lo stesso silenzio polveroso, lo stesso tintinnare di ganci che sbattono sui ponteggi, lo stesso clic delle macchine fotografiche e dei telefoni che portano a casa il che-disastro-che-tristezza di foto che nessuno guarda, solo depurato dalla sensazione di imbarazzo e vergogna che si ha nel ritrarre la sventura altrui. Le macerie, quando sono fumanti, hanno ancora dentro abbastanza morte da ricordare la vita; quando si raffreddano diventano museo, e quei dieci uomini con l’elmetto giallo che girano intorno a una delle cento gru messe al posto delle antenne televisive devono esserne i guardiani, o gli uscieri.