Cos’abbiamo da guardare
C’è questa grande vetrata, a Roma Tiburtina. Sta al secondo piano (o è il primo? mai che riesca a ricordarlo), vicino a un bar che vende i panini da stazione. Ci arrivi passando in mezzo a una specie di area di sosta con i tavolini e le sedie abbastanza larghi da non sentirsi in imbarazzo. C’è sempre qualcuno a quella vetrata, qualcuno che gira la sedia e passa dei quarti d’ora a guardare fuori. Cosa, non lo so: se lo chiedessero a me, che lo faccio ogni volta che posso se non arrivo trafelato, non saprei cosa rispondere. Perché il panorama è quello che è: brutto, fatto di palazzi che erano brutti anche da nuovi e figuriamoci oggi dopo decenni di gas di scarico e manutenzioni approssimative, di un cavalcavia grigio anche quando il cielo ha il colore dell’ottobrata romana, e là sotto i binari con i treni dell’alta velocità. Potrebbe essere uno scorcio di Bucarest o di una qualsiasi delle città che usiamo come paradigma della bruttezza (a mostrare la nostra ignoranza: Bucarest è tutto tranne che brutta, per dire), una cartolina di certa periferia milanese o della banlieue parigina (perché la città-più-bella-del-mondo è fatta di tante enormi isole di puro squallore), eppure a quella vetrata, davvero: c’è sempre qualcuno. Che sta lì, e guarda, una mano appoggiata sul trolley e le gambe stese, e quando deve alzarsi per cercare il suo binario pare che gli dispiaccia.