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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    24/11/2015

    Cose/3

    Filed under: — JE6 @ 15:13

    Come una sagoma sul pavimento
    come sabbia sotto il cemento
    come una magra malattia
    come il passato
    in una fotografia

    Nessuno capì mai perché lo fece, cosa gli passò in testa quando decise di uscire di casa in piena notte per attraversare mezza città e fermarsi in mezzo al marciapiede, davanti al bar tabacchi di fronte al quale era casualmente passato quella mattina. Nessuno capì mai perché lo aveva colpito così tanto la sagoma che un poliziotto aveva disegnato con il gesso seguendo il contorno del cadavere di un rapinatore senza fortuna, né tanto meno perché aveva deciso di stendersi per terra adeguandosi a quella forma, calcolando che il braccio destro sarebbe caduto a riempire esattamente quel pezzo di asfalto in mezzo a una riga bianca subito dopo aver tirato il grilletto. Nessuno seppe mai perché nella tasca destra dei pantaloni stazzonati ci fosse la fotografia a colori di una bambina scalza ed emaciata che colore della pelle e lineamenti non portavano a lui in alcun modo – qualcuno pensò a una relazione segreta, altri ad un’adozione a distanza, senza che questa o quella ipotesi avesse anche un minimo fondamento nelle insignificanti tracce che si era lasciato alle spalle, lievi come lo strato di polvere che copriva i mobili del suo appartamento. Nessuno capì mai tutto questo, né i colleghi né i vicini di casa, anche quei pochi arditi che il giorno dopo risposero sì, abbastanza a chi gli chiedeva se lo conoscevano. Nessuno lo capì mai, e solo la fortuna di aver mentito dando quella risposta li protesse dall’infinito sconcerto che li avrebbe presi se solo avessero saputo che nemmeno lui aveva capito quel che stava facendo e quel che stava per fare nel momento in cui decise di uscire di casa in piena notte per attraversare mezza città e fermarsi in mezzo al marciapiede, davanti al bar tabacchi di fronte al quale era casualmente passato quella mattina.

    14/11/2015

    Quando scoppiavano le bombe

    Filed under: — JE6 @ 21:57

    Quando scoppiavano le bombe, noi c’eravamo. Ce lo ricordiamo, e pure abbastanza bene. Ci ricordiamo dov’eravamo quando abbiamo saputo la notizia, lo sgomento dei nostri genitori che provavano al tempo stesso a spiegarci le cose e a proteggerci dalla nozione del male insensato, e alcuni di noi ricordano pure la sensazione delle gocce di angoscia che si accumulavano, una per ogni minuto di ritardo, quando qualcuno non rientrava a casa in un’epoca senza cellulari. Scoppiarono per un sacco di tempo, le bombe. E per un tempo persino più lungo spararono le pistole e i mitra. C’eravamo, lo sappiamo. Ne siamo venuti fuori, e sarà bene ricordarcela, questa cosa che ci siamo riusciti, perché se ce l’abbiamo fatta una volta ce la possiamo fare una seconda, e una terza. Sarà anche bene non raccontarci la favola che ce l’abbiamo fatta continuando a vivere come prima, perché non è vero. Siamo stati costretti a cambiare, a sottoporci a limiti, privazioni e violenze legali delle quali avremmo volentieri fatto a meno, perché è stato necessario. Se ti viene la febbre, se qualcuno ti attacca un virus, prendi gli antibiotici: che è una cosa che altrimenti non faresti, e invece. E se la malattia è qualcosa di più grave, ti aggiusti di conseguenza: come chi si inietta l’insulina ogni giorno, come chi fa la dialisi due volte alla settimana per tutta la vita, perché quello ti tocca, a mali estremi eccetera. E con certe malattie ti rendi conto che non guarisci, ti rendi conto che per combatterle devi cambiare per quanto questo ti sembri ingiusto, cambiare fino al punto che ti metti davanti allo specchio e fai fatica a riconoscerti perché hai perso i capelli o sei gonfio di cortisone. E’ stato così anche con le bombe, quando scoppiavano, e noi che c’eravamo lo sappiamo, ce lo ricordiamo. Anche se non vogliamo ricordarcelo.

    06/11/2015

    Cose/2

    Filed under: — JE6 @ 17:08

    È come un albero nel deserto
    come un trucco non ancora scoperto
    come una cosa che era meglio non fare
    come il cadavere di una stella
    sulla schiuma del mare

    Dicono che ai rumori prima o poi ti abitui. Sarà. Io so che mi sono trasferita in questa casa da otto anni e al rumore del mare non ci ho ancora fatto la mano, o l’orecchio. Se non mi addormento subito ci puoi scommettere che passerò la notte in bianco, guardando un filo di luce che in qualche modo riesce sempre a passare attraverso le imposte e ascoltando lo sciacquio dell’acqua che arriva a venti metri da qui: mai presi tanti sonniferi in vita mia, nemmeno quando abitavo alla Falchera, poi uno dice che la natura fa bene alla salute. Comunque, il fatto è che ci sono notti che non riesco nemmeno a stare sdraiata a letto perché quel maledetto suono mi mette addosso una rabbia e un’ansia che mi metterei a gridare, e potrei pure farlo senza dar fastidio a nessuno visto che vivo da sola, se solo non mi vergognassi di me stessa. Allora in quelle notti mi alzo, mi vesto alla meglio e vado a camminare in spiaggia, basta che non diluvi. Non mi fa fatica, sono uno scricciolino di un metro e cinquanta e quaranta chili di peso, di sicuro non corro il rischio di affondare nella sabbia. Cammino, guardo la luce del faro all’altro capo di questa cittadina che ho imparato a odiare con serenità, a volte mi infilo le cuffiette e ascolto un po’ di musica. Non c’è mai nessuno, quei quattro pescatori rimasti in vita sono fuori, gli altri sotto le coperte a dormire o fare cose che quando mi ricordo vado a fare anch’io prendendo la macchina e tornando in città. In fondo questo vuoto mi piace, posso fare quello che voglio, ridere da sola, chinarmi a raccogliere un ramo arrivato da chissà dove e venuto a spiaggiarsi qui come un baobab nel Sahara, addirittura pensare. E invece stanotte. C’è sempre una prima volta, in fondo. Stanotte stavo arrivando alla fine della prima metà della camminata, quella che mi fa arrivare al chiosco che rimane aperto tre mesi all’anno e so che è tempo di tornare indietro prima di prendermi una polmonite, quando li ho visti. Due ragazzi, seduti sullo scafo ribaltato di una barca in secca. A una cinquantina di metri da me. Ho rallentato il passo, mi sono chiesta chi fossero e cosa stessero facendo, se mi trovavo in pericolo, se avevo il telefono abbastanza carico per una chiamata di emergenza. Erano strani, guardavano fissi davanti a sé: tra buio e distanza non potevo vederne l’espressione, ma qualcosa di strano c’era perché non si tenevano per mano, non si guardavano, non parlavano. Niente, due statue. Finché, ma non so dire quanto tempo dopo, se venti secondi o dieci minuti, lui ha girato piano il viso dalla mia parte, mi ha visto e con un movimento brusco e lento al tempo stesso si è alzato, si è tirato sulla testa il cappuccio della felpa, si è abbassato verso di lei come per dirle qualcosa nell’orecchio e se ne è andato. Le ha fatto una carezza, prima di muovere il passo. Un gesto impacciato, di quelli che fai quando non hai confidenza o non sai se te la meriti più. L’ho guardato andarsene, uscire dalla spiaggia, poi l’ho perso di vista e intanto ero arrivata dalla ragazza e cristosanto avrà avuto quindici, sedici anni ma con un faccino da prima media che ho avuto il terrore di avercela avuta fra i piedi nei corridoi della scuola senza essermene resa conto. Lei si è girata con un’espressione vacua da dare i brividi, perché se hai quindici anni e arriva un adulto e ti trova da sola in spiaggia alle due di notte non stai a fissarlo come se fosse trasparente. Tutto bene, le ho detto quando sono arrivata a due passi da lei, e non ha risposto, e allora le ho ripetuto tutto bene e mi sono resa conto di non aver messo il punto di domanda, come se io per prima volessi essere sicura che sì, che era tutto a posto e invece lei è scoppiata a piangere per poi fermarsi subito e tirare su col naso e dirmi – e io ormai stavo a mezzo metro da lei e potevo persino vederle la sabbia nei capelli scuri – io volevo e poi non volevo più, signora, e poi volevo ancora e cazzo è stata una cosa che era meglio non fare e lo ha detto con una voce da bambina che arrivava da un altro mondo e io non ho saputo cosa dirle, non ho saputo cosa fare se non allungare la mano per capire se era vera, se era reale, mentre un’onda più lunga arrivava a bagnarci i piedi.

    01/11/2015

    Cose/1

    Filed under: — JE6 @ 18:10

    È come il giorno che cammina
    come la notte che si avvicina
    come due occhi che stanno a guardare
    da dietro una tenda
    e non si fanno notare.

    Non ricordo quando è stata la prima volta che l’ho vista. Io stavo ancora ciondolando da una parte all’altra della casa, una tazzina di caffè in una mano e la sigaretta nell’altra, in pigiama, aspettando che i sensi di colpa fossero abbastanza forti da costringermi a sedermi alla scrivania e buttare giù “i contenuti” che questo o quel cliente mi avrebbe pagato, forse, sei mesi dopo. Lo so perché è quello che faccio ogni giorno da quando accidia e riorganizzazioni mi hanno portato nel mondo incantato del terziario a partita IVA. So che stavo alla finestra, guardavo lo scarso traffico delle nove del mattino di questa via strana nella quale sono venuto ad abitare un annetto fa. Strana, perché è centrale e periferica al tempo stesso, come certe strade di Manhattan che le percorri da cima a fondo e ad un certo punto ti rendi conto del silenzio che c’è. A Manhattan. Forse pensavo agli ambulanti del mercato rionale che stanno a una manciata di palazzi da qui, che da ore avevano già messo sulle bancarelle arance e maglioni. Non lo so. So che l’ho vista uscire dal portone del palazzo di fronte, e l’ho seguita con lo sguardo fino a una macchina vecchia e sporca parcheggiata precariamente sotto un albero, l’ho guardata entrare, sedersi, partire, e mi è sembrato che nel momento in cui ha girato le chiavi dell’accensione le si sia alzato il petto come per un sospiro, come se si stesse facendo coraggio. Non lo ricordo, ma so che l’ho pensata per tutto il giorno, senza un motivo. Ricordo bene invece che mi sono ritrovato ad aspettarla verso le sette di sera, immaginando che quello potesse essere un buon orario per il suo rientro, e lei invece non è arrivata. Da lì in poi ricordo tutto, la mattina successiva e quella dopo e quella dopo ancora, stesso orario; quello che cambiava era il suo vestito, il resto era tutto uguale, il mio pigiama, la mia sigaretta, il mio caffè. Ogni sera mi avvicinavo alla finestra con la scusa di una pausa, o del meritato riposo dopo una lunga giornata di “contenuti”, cercando di capire quale fosse l’ora del suo rientro. Senza riuscirci. Ricordo che è arrivato il weekend e mi sono imposto di non pensarci, di non pensarla, vergognandomi un po’ di quelle giornate che avevo passato tenendo un pezzo di cervello separato da tutto il resto in attesa della sera che si avvicinava. Da allora credo che siano passate un paio di stagioni, ho cambiato il pigiama ma tutto il resto è rimasto uguale, i suoi capelli neri e l’espressione assorta e il sospiro che fa nel preciso istante in cui accende la macchina, il mio caffè, la mia sigaretta e quel pezzo di cervello che la aspetta. Non ha mai alzato lo sguardo verso il terzo piano del palazzo di fronte al suo, quello dove abito io, nemmeno per caso, per sbaglio, per seguire con gli occhi un’ape o una nuvola. Non mi avrebbe visto, perché sto dietro una tenda, ma avrei potuto vederla io, guardare per un secondo i suoi occhi. A volte penso a quando questo succederà, perché se ho rinunciato a vederla rientrare a casa, e su questo ho creato un milione di fantasie sul lavoro che fa, e dove sono il suo ufficio e il supermercato nel quale si ferma a fare la spesa, e la palestra dove va con due colleghe a fare shiatsu o pilates e il biglietto sul quale l’istruttore le ha scritto un numero di telefono da chiamare quando vuole, se ho rinunciato a tutto questo non ho rinunciato a sperare di vederla davvero, il giorno che alzerà il volto verso la mia tenda tirata.