Qualche cosa che ho imparato scrivendo un libr(ett)o
E quindi ho scritto un libro. Un libretto, diciamo: sono ottantasette pagine, due o tre sere con un occhio al Kindle e uno alla Champions. Scrivendolo e autopubblicandolo ho imparato alcune cose, che mi appunto qui come assicurazione sulla perdita di memoria.
Non si rilegge mai abbastanza. La consapevolezza della cosa potrebbe indurre a decidere che rileggere è inutile ma ovviamente non è così; diciamo che più si rilegge e più pezze si mettono e meno buchi rimangono.
Il risultato finale non sarà mai quello che volevi, e quello che volevi – anche se non lo vuoi ammettere – è quello che aspettavi di trovarti fra le mani. Anche qui, tutto sta a far pace con se stessi: era il meglio che potevi fare? Ovviamente no, quanto meno potevi rileggere una volta di più; hai fatto del tuo meglio nel mettere in ordine le idee e scriverle? Se sì, allora va bene così. Per il nuovo Infinite Jest, ritenta e (forse) sarai più fortunato.
Con un numero spettacolarmente basso di copie vendute si raggiungono posizioni spettacolarmente alte nelle classifiche categoriche di Amazon, almeno per qualche giorno. Se si è il giusto tipo umano, è una cosa della quale ci si può bullare con gli amici al bar (posto che i vostri amici abbiano consuetudine con ebook, annessi e connessi: altrimenti lasciate perdere) (anzi, lasciate perdere e basta).
E’ una cosa divertente che forse farai ancora, ma più probabilmente no.
Anche se sei uno di quelli che scrivono con facilità, di quelli che al liceo facevano il tema subito in bella, scrivere bene è una roba per pochi. Ma pochi davvero. E tu non sei di quelli, con ogni probabilità.
Ci sono pochi modi così efficienti ed efficaci per mostrare al mondo che sei dotato di un ego piuttosto sviluppato come autopubblicare un libro: perché mai uno dovrebbe mettersi a nudo in pubblico se non, essenzialmente, per esibizionismo? E’ meglio ammetterlo subito, partendo mettendosi davanti allo specchio.
Il libro vero è quello che non hai scritto.