A casa
Credo che la maggior parte di noi non abbia mai passato tanto tempo in casa come durante questa quarantena. E’ un totem, la casa. Un bisogno fondamentale, come testimonia che un tetto è ciò che, insieme al cibo, si cerca di dare a chiunque si trovi in gravi difficoltà (almeno fino a quando, per egoismo e paura, non si decide che è meglio girare la testa e abbandonare il prossimo al suo destino).
Ma la casa è molto altro, lo sappiamo. Basta pensare a certe nostre espressioni: essere a casa, sentirsi a casa, tornare a casa, hanno tutte un fondo che non ha a che fare con il puro soddisfacimento del bisogno di non restare all’addiaccio. C’è molto di più, perché in fondo la nostra casa siamo noi. Non è, naturalmente, una questione di proprietà, perché quelle parole le usiamo anche quando viviamo in affitto, magari in una piccola camera in un appartamento in condivisione: a volte cerchiamo di attrezzare lo spazio come se fosse quello di casa anche per passare una notte in un alberghetto della provincia veneta. Ci pensavo girando per i corridoi al sedicesimo piano del palazzo di Prypjat dalle cui finestre si poteva vedere in lontananza la figura della Centrale esplosa: le case erano dello stato, da questo venivano assegnate, grazie al suo permesso le si poteva abitare; eppure, quei bilocali che potevamo calpestare trent’anni dopo il loro abbandono erano davvero la casa di qualcuno, per il semplice motivo che una volta che ci entri e ci vivi quella casa è tua perché sei tu. Tu sei quelle cose lì, la scarpiera e il lampadario e il televisore e la libreria e lo zerbino e il tappetino del bagno, sei i loro colori e la loro disposizione, sei il giorno che li hai comprati e quello che non li hai più notati per l’abitudine ad averli sotto gli occhi. E così entrare in una casa, anche in una disabitata da più di trent’anni, è come scivolare in quella nicchia segreta della vita di ciascuno, nascosta agli occhi di tutti, anche delle persone più intime: che forse è il motivo dell’imbarazzo che tanti di noi provano in questi giorni di videoconferenze obbligate, quando siamo costretti ad aprire porte che vorremmo tenere chiuse e varcare soglie alle quali non desidereremmo avvicinarci.