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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    08/05/2020

    A casa

    Filed under: — JE6 @ 09:34

    Credo che la maggior parte di noi non abbia mai passato tanto tempo in casa come durante questa quarantena. E’ un totem, la casa. Un bisogno fondamentale, come testimonia che un tetto è ciò che, insieme al cibo, si cerca di dare a chiunque si trovi in gravi difficoltà (almeno fino a quando, per egoismo e paura, non si decide che è meglio girare la testa e abbandonare il prossimo al suo destino).
    Ma la casa è molto altro, lo sappiamo. Basta pensare a certe nostre espressioni: essere a casa, sentirsi a casa, tornare a casa, hanno tutte un fondo che non ha a che fare con il puro soddisfacimento del bisogno di non restare all’addiaccio. C’è molto di più, perché in fondo la nostra casa siamo noi. Non è, naturalmente, una questione di proprietà, perché quelle parole le usiamo anche quando viviamo in affitto, magari in una piccola camera in un appartamento in condivisione: a volte cerchiamo di attrezzare lo spazio come se fosse quello di casa anche per passare una notte in un alberghetto della provincia veneta. Ci pensavo girando per i corridoi al sedicesimo piano del palazzo di Prypjat dalle cui finestre si poteva vedere in lontananza la figura della Centrale esplosa: le case erano dello stato, da questo venivano assegnate, grazie al suo permesso le si poteva abitare; eppure, quei bilocali che potevamo calpestare trent’anni dopo il loro abbandono erano davvero la casa di qualcuno, per il semplice motivo che una volta che ci entri e ci vivi quella casa è tua perché sei tu. Tu sei quelle cose lì, la scarpiera e il lampadario e il televisore e la libreria e lo zerbino e il tappetino del bagno, sei i loro colori e la loro disposizione, sei il giorno che li hai comprati e quello che non li hai più notati per l’abitudine ad averli sotto gli occhi. E così entrare in una casa, anche in una disabitata da più di trent’anni, è come scivolare in quella nicchia segreta della vita di ciascuno, nascosta agli occhi di tutti, anche delle persone più intime: che forse è il motivo dell’imbarazzo che tanti di noi provano in questi giorni di videoconferenze obbligate, quando siamo costretti ad aprire porte che vorremmo tenere chiuse e varcare soglie alle quali non desidereremmo avvicinarci.

    07/05/2020

    Le voci dentro

    Filed under: — JE6 @ 17:39

    Da questi mesi di clausura in sedicesimo (quella vera è una cosa seria, non solo perché voluta) mi sarei aspettato molte cose, fra le quali il silenzio. O meglio, un po’ più di silenzio rispetto al solito. Ora, non so, forse è solo un’impressione e come tale va presa, valutata, pesata: ma mi pare che invece fin dal primo giorno, anzi fin da prima del primo giorno siamo accompagnati da tanto rumore in più. A volte un brusio, un ronzio di sottofondo, altre un insieme di voci che mettono decibel su decibel, un po’ metaforici e un po’ no. Non è solo questione del trovarsi tutti in casa contemporaneamente, cosa che nella vita di tutti i giorni capita tanto raramente a chi non vive da solo: se è per quello si può essere sufficientemente presi dal e concentrati sul lavoro o sullo studio da non aprire bocca per ore intere. E’ tutto un insieme fatto di notizie, chat, pensieri, Marco dice che, hai sentito il virologo, chissà chissà domani su che cosa metteremo le mani. Un rumore che pare impossibile da evitare, forse perché spesso lo andiamo a cercare: e non per horror vacui, non solo: anche per un legittimo, comprensibile, umano bisogno di capire e condividere. Ma il rumore confonde, sporca, copre. E anche coloro che dicono che questa formidabile combinazione di pandemia e quarantena gli ha fatto capire nitidamente il giusto e lo sbagliato, gli ha disvelato o confermato il buono e l’empio, anche questi mentono: sono confusi, come tutti, presi e intontiti dal rumore fuori, e dalle voci dentro.

    01/05/2020

    Al lavoro

    Filed under: — JE6 @ 12:35

    Mesi fa stavo in costa al monte Trebevic; sotto di me stava la piana lunga e stretta nella quale si stende Sarajevo e a fianco un uomo un po’ più giovane di me, che dall’alto dei suoi quattro anni di combattimenti iniziati quando non era ancora maggiorenne mi spiegava che proprio dal punto nel quale ci trovavamo i cecchini serbi sparavano sui civili musulmani che si avventuravano in cerca di pane o legna da bruciare. A un certo punto l’uomo riportò lo sguardo verso il basso, verso la città e il fiume che la attraversa: “erano bravi i serbi”, disse, e mi parve di sentire nella sua voce l’inevitabile e insopprimibile e paradossale ammirazione che una persona buona e onesta prova nei confronti di chi fa bene il suo lavoro anche se questo consiste nello sparare a un innocente che sta andando a comprare il pane. E’ un riconoscimento che viene da lontanissimo, dai nostri avi, dalla scuola, da un modo di stare al mondo che per arrivare a definire l’orrore deve fare una mezza dozzina di passi di razionalizzazione, prima dei quali sta la spontanea ammirazione per la combinazione di capacità e applicazione che rende alcuni soggetti speciali e li fa spiccare nel loro perimetro di competenza, sia questo il campo di calcio per Messi o la creazione e gestione del sistema di trasporto verso i campi di sterminio per Eichmann. “Erano estremamente ben addestrati”, disse ancora guardando in basso verso il fiume, “non sbagliavano mai”. Ferivano se volevano ferire, uccidevano se volevano uccidere. Tu conoscevi la loro posizione, quello che non sapevi e non potevi sapere era quando avrebbero deciso di sparare, quando ne avrebbero avuto voglia o ricevuto l’ordine. Erano bravi e grazie a quella bravura avevano ucciso o ferito decine, forse centinaia di persone che lui conosceva e ciò nonostante, a venticinque anni di distanza quell’uomo non riuscì a usare un altro termine: erano bravi.

    Ho pensato spesso a quel minuto di un pomeriggio di agosto sulle colline della Republika Sprska. Ci ho pensato perché ho la fortuna di fare un lavoro che mi piace. L’ho avuta per lunghi tratti della mia vita, il che la rende ancora più straordinaria. E’ una fortuna a doppio taglio, se così si può dire: se ti piace una cosa che nella costruzione sociale della quale fai parte ti tiene occupato otto, nove, dieci ore per almeno cinque dei sette giorni che il buon Dio si è inventato, il pericolo è che quella cosa occupi uno spazio troppo importante, e che lo faccia senza che tu te ne accorga; ma questa è un’altra storia.

    Nella fortuna mi riconosco un solo merito, che è aver coltivato il piacere – a volte persino puramente estetico – per le cose fatte bene. Per il clac dei pezzi che vanno al loro posto, per la bellezza di un tavolo dritto e di un documento ben scritto. Sembra banale ma no, non lo è. E’ facile provarlo stando di fronte, chessò, al prodotto dell’ingegno e dell’abilità non dico di un’artista, ma di un bravo artigiano – un falegname, un imbianchino; è meno scontato cercarlo e sentirlo dopo i lunghi mesi di trattativa con una controparte scaltra e dura, alla fine dei quali firmi un contratto che è giusto persino negli spazi bianchi, e questo non ti fa dimenticare ma ti consente di considerare quasi con affetto le serate di lavoro, le migliaia di chilometri percorsi, le ore dormite male: non è il valore del contratto in sé, è l’avercela fatta: e bene, facendo le cose nel modo giusto.

    E’ un piacere a suo modo perverso, come quel minuto in Bosnia mi pare dimostri. Ma forse si diventa – e resta – adulti anche così: guardando l’abisso senza farsene risucchiare.