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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    01/05/2020

    Al lavoro

    Filed under: — JE6 @ 12:35

    Mesi fa stavo in costa al monte Trebevic; sotto di me stava la piana lunga e stretta nella quale si stende Sarajevo e a fianco un uomo un po’ più giovane di me, che dall’alto dei suoi quattro anni di combattimenti iniziati quando non era ancora maggiorenne mi spiegava che proprio dal punto nel quale ci trovavamo i cecchini serbi sparavano sui civili musulmani che si avventuravano in cerca di pane o legna da bruciare. A un certo punto l’uomo riportò lo sguardo verso il basso, verso la città e il fiume che la attraversa: “erano bravi i serbi”, disse, e mi parve di sentire nella sua voce l’inevitabile e insopprimibile e paradossale ammirazione che una persona buona e onesta prova nei confronti di chi fa bene il suo lavoro anche se questo consiste nello sparare a un innocente che sta andando a comprare il pane. E’ un riconoscimento che viene da lontanissimo, dai nostri avi, dalla scuola, da un modo di stare al mondo che per arrivare a definire l’orrore deve fare una mezza dozzina di passi di razionalizzazione, prima dei quali sta la spontanea ammirazione per la combinazione di capacità e applicazione che rende alcuni soggetti speciali e li fa spiccare nel loro perimetro di competenza, sia questo il campo di calcio per Messi o la creazione e gestione del sistema di trasporto verso i campi di sterminio per Eichmann. “Erano estremamente ben addestrati”, disse ancora guardando in basso verso il fiume, “non sbagliavano mai”. Ferivano se volevano ferire, uccidevano se volevano uccidere. Tu conoscevi la loro posizione, quello che non sapevi e non potevi sapere era quando avrebbero deciso di sparare, quando ne avrebbero avuto voglia o ricevuto l’ordine. Erano bravi e grazie a quella bravura avevano ucciso o ferito decine, forse centinaia di persone che lui conosceva e ciò nonostante, a venticinque anni di distanza quell’uomo non riuscì a usare un altro termine: erano bravi.

    Ho pensato spesso a quel minuto di un pomeriggio di agosto sulle colline della Republika Sprska. Ci ho pensato perché ho la fortuna di fare un lavoro che mi piace. L’ho avuta per lunghi tratti della mia vita, il che la rende ancora più straordinaria. E’ una fortuna a doppio taglio, se così si può dire: se ti piace una cosa che nella costruzione sociale della quale fai parte ti tiene occupato otto, nove, dieci ore per almeno cinque dei sette giorni che il buon Dio si è inventato, il pericolo è che quella cosa occupi uno spazio troppo importante, e che lo faccia senza che tu te ne accorga; ma questa è un’altra storia.

    Nella fortuna mi riconosco un solo merito, che è aver coltivato il piacere – a volte persino puramente estetico – per le cose fatte bene. Per il clac dei pezzi che vanno al loro posto, per la bellezza di un tavolo dritto e di un documento ben scritto. Sembra banale ma no, non lo è. E’ facile provarlo stando di fronte, chessò, al prodotto dell’ingegno e dell’abilità non dico di un’artista, ma di un bravo artigiano – un falegname, un imbianchino; è meno scontato cercarlo e sentirlo dopo i lunghi mesi di trattativa con una controparte scaltra e dura, alla fine dei quali firmi un contratto che è giusto persino negli spazi bianchi, e questo non ti fa dimenticare ma ti consente di considerare quasi con affetto le serate di lavoro, le migliaia di chilometri percorsi, le ore dormite male: non è il valore del contratto in sé, è l’avercela fatta: e bene, facendo le cose nel modo giusto.

    E’ un piacere a suo modo perverso, come quel minuto in Bosnia mi pare dimostri. Ma forse si diventa – e resta – adulti anche così: guardando l’abisso senza farsene risucchiare.