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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    27/01/2021

    Quando sei fuori

    Filed under: — JE6 @ 10:33

    Era più o meno l’una del pomeriggio, quella che noi per tradizione, benessere e fortuna chiamiamo “l’ora di pranzo” quando, nel gelo e sotto il sole limpido che solo l’inverno polacco può regalare, aspettando l’autobus che ci avrebbe portato dal piazzale di Auschwitz all’ingresso di Birkenau, chiesi all’uomo che ci aveva portato per fili spinati e crematori e montagne di scarpe di ogni foggia e dimensione e muri di esecuzione e celle di tortura da quanto faceva quel lavoro, il mestiere di provare a dare forma e sostanza alla parola sterminio e metterla in mano a gente come me. “Otto anni” rispose, con un tono neutro ma vivo. “E com’è?”, chiesi ancora, senza saper articolare meglio la mia curiosità. “Non è il dentro, sono le domande che ti fai quando sei fuori”, mi disse, e quelle parole sono la cosa che mi è rimasta davvero dentro di quella mattina d’inverno a Auschwitz-Birkenau.

    21/01/2021

    Il mio verso libero

    Filed under: — JE6 @ 18:49

    Ho un rapporto difficile con la poesia. Ci sono cose peggiori nella vita, intendiamoci: è che a volte mi spiace perché mi ritrovo a pensare che forse lì dentro c’è qualcosa che potrebbe piacermi se solo mi trovassi su una lunghezza d’onda meno distante da quella sulla quale sembra muoversi tanta poesia moderna. Poi penso anche che spesso – non voglio dire sempre: sarebbe arrogante farlo – questa poesia sembra davvero un esercizio di “a capo per darsi un tono”. Sono certo (non è vero: voglio essere certo) che non è così, ma prendete il pezzo di Amanda Gorman per il quale si è sdilinquita mezza America, cioè il cento per cento di quella bideniana, insieme a un altro mezzo mondo dall’orecchio più fino del mio:

    A country that is bruised but whole,
    benevolent but bold,
    fierce and free
    We will not be turned around
    or interrupted by intimidation
    because we know our inaction and inertia
    will be the inheritance of the next generation

    E adesso togliete le pause e i trattenimenti di respiro e l’high pitch alla fine di ogni riga; continua a non essere un capolavoro, ma arriva dritto al punto senza nascondersi nella forma:

    A country that is bruised but whole, benevolent but bold, fierce and free: we will not be turned around or interrupted by intimidation, because we know our inaction and inertia will be the inheritance of the next generation.

    Sembro mio nonno, eh? Probabilmente lo sono già diventato: ho letto un libro di poesie di una scrittrice che amo di amore puro, Kapka Kassabova, e quei versi non erano altro che la sua prosa spezzata qui e là. Stavo lì, chiedendomi perché, perché mi fai questo Kapka, non è tanto più bello il cristallo lucente delle tue pagine di Border e To the Lake quando racconti del tuo bisnonno fuggito di notte pagaiando in mezzo al lago di Ohrid di questi pezzetti ai quali l’a capo toglie respiro, grazia e capacità di pungere? E niente, è così. Ci riprovo, ogni tanto: e tutte le volte finisco per dire “non sei tu, sono io”, ma senza crederci fino in fondo.

    [Mi sono sdilinquito pure io per la Gorman, eh: per la capacità di tenere il palco a ventidue anni, mica per altro. Mi sarei sdilinquito anche se là sopra ci fosse stato Achille Lauro, per lo stesso motivo. Ma è un’altra storia]

    20/01/2021

    Due gradi, forse

    Filed under: — JE6 @ 15:43

    La più bella, profonda, intima, politica, umana intervista di Barack Obama di cui io sono a conoscenza (e ne ho ascoltate tante: ho una passione per quell’uomo sulla quale negli ultimi anni si è innestata una sensazione di mancanza a volte imbarazzante) è stata registrata in un garage nel giugno del 2015. L’intervistatore, che per lunghi tratti suona più come una specie di amico ritrovato o di uomo che ha ritrovato un amico, è Marc Maron, un comedian all’epoca cinquantaduenne, in pratica un coetaneo del presidente, famoso forse più per il suo podcast WTF che per le sue performance comiche (peraltro piuttosto buone, ma questo è un giudizio mio).

    Ci sono mille cose notevoli in quell’ora di chiacchierata, a partire dal fatto che il Presidente degli Stati Uniti d’America prende e va a in un sobborgo californiano per farsi intervistare in un modo tanto divertente quanto interessante da quello che noi chiameremmo un comico (ma comedian è, in generale, ben altro: le parole sono importanti, si sa) nel garage di casa sua dando il sigillo di nobiltà assoluta a un programma dal nome molto diretto ma poco istituzionale di What The Fuck, dichiarandosi tra l’altro fan della trasmissione; se state facendo lo sforzo di immaginare se una cosa del genere sarebbe possibile in Italia smettete pure di perdere tempo: non succederà, almeno fino a quando noi saremo vivi (cosa che ci auguriamo continui ancora a lungo), e le comparsate di questo o quel politico al Bagaglino non contano se non per peggiorare gravemente i termini del confronto. Fra tutte, comunque, la cosa che più mi è rimasta impressa è la frase con cui Obama spiega a Maron che anche se l’epoca sembra chiedere altro, i cambiamenti politici come quelli sociali hanno bisogno di tempo e vanno giudicati nel lungo periodo: “le democrazie non virano di cinquanta gradi: se va bene lo fanno di due”. A pensarci bene, non è la frase in sé che mi è rimasta scolpita, ma il tono con cui è stata pronunciata: un tono non di fastidio o delusione, per lamentarsi dei formalismi e delle inefficienze della democrazia, ma di consapevolezza che questa non è fatta di salti e scalini ma è un processo di milioni di aggiustamenti continui, che siamo tanti e diversi, che metterci d’accordo è tutto tranne che facile ma è la cosa giusta da fare o almeno da perseguire, che nel lungo periodo è vero che saremo tutti morti ma almeno lo faremo andando nella direzione giusta. Il tono di uno che crede nei fatti e nella scienza e al tempo stesso nella necessità di sentire qualcosa insieme ai suoi concittadini e connazionali, di uno che non ha vergogna nel definirsi un ottimista. Non so se l’ho già scritto, ma quell’uomo – e comunque uno così, uno fatto in quel modo – mi manca. Tanto.

    01/01/2021

    Sulla strada

    Filed under: — JE6 @ 17:17

    Ho un solo rito per l’inizio dell’anno. Nessun cibo particolare, nessun colore speciale di biancheria intima (usa ancora? non so): quando vado a letto, non importa l’ora, inizio un libro. Pagina 1. Deve essere un libro che significa qualcosa: per me, intendo. Quindi è sempre una rilettura, perchè non voglio sorprese; è come mettere su The Blues Brothers o The Dark Side of the Moon: chiamalo usato garantito, se vuoi. Dev’essere, insomma, un libro che conta, che segna una strada sapendo che poi da quella scarterò cento volte. Alla fine quindi non sono molti quelli fra i quali scelgo, preparandomi un paio di giorni prima. Oggi ho ripreso “La chiave a stella” di Primo Levi, perché sono uno di quelli che ha avuto la fortuna di non avere veri problemi di lavoro nell’anno della pandemia, delle chiusure, delle casse integrazioni. E’ il libro che ha come protagonista Tino Faussone, di professione montatore, l’uomo per il quale la chiave a stella del titolo è la naturale prosecuzione della mano, al quale io, che ho un’abilità manuale da bimbo di tre anni, voglio bene come a uno zio buono e per il quale provo un’invidia buona e infinita. E’ l’uomo che dice, ricordando suo padre, “A lui un lavoro come il mio gli sarebbe piaciuto, anche se l’impresa ci guadagna sopra, perché almeno non ti porta via il risultato: quello resta lì, è tuo, non te lo può togliere nessuno, e lui queste cose le capiva, si vedeva dalla maniera come stava lì a guardare i suoi lambicchi dopo che li aveva finiti e lucidati”. E’ anche il libro dove, grazie a Faussone, Levi scrive alcune delle sue righe più belle – e ne ha scritte tante meravigliose -, come, ad esempio “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”. A volte le verità stanno lì, nascoste in bella vista sotto gli occhi: e ci vuole qualcuno che te le mostri, nella notte del primo giorno dell’anno, per iniziare la strada sulla quale tornare, prima o poi.